Al via Altresistenze, la stagione 2013-14 del Teatro Valle. Occupato. E forse è il caso di fare un punto della situazione. Dal giorno dell’intrusione nello stabile settecentesco allora appartenente al dismesso ETI, il movimento di occupazione ha vissuto momenti altalenanti, muovendosi dai grandi clamori della stampa nazionale e le copertine “vipparole” delle migliori riviste patinate, fino all’oblio e alla delusione di chi credeva le cose andassero diversamente, almeno rispetto alla possibilità di impiantare una propria idea in un territorio rivelatosi sordo. Noi, noi tutti osservatori locali e nazionali che ci siamo passati e che abbiamo seguito alternamente questi accadimenti viviamo di continuo la stessa altalena di situazioni: oggi a favore, domani contrari. Questo accade per un fattore molto semplice: il Valle sta agendo in virtù di una vitalità in cui si riconosce la nostra parte dinamica, sta ponendo delle questioni urgenti in ambito culturale che nessuna istituzione in questo periodo, nostro malgrado, sta ponendo. Ma cosa si muove nel mezzo fra rivolta e conservazione? Uno dei meccanismi più sinistri è quello che va dall’adesione al diniego, ossia gli estremismi da cui chi osserva per mestiere cerca di stare lontano. Certo, non è sempre facile. E il desiderio di dar voce alla pancia più che alla ragione prende spesso il sopravvento. Ma proprio di questi tempi occorre forse un passaggio ulteriore, meditato, perché un’idea si presenti più stabile.
La stampa. Dunque. In questi ultimi tempi i giornali nazionali, più ancora con le loro schiere militari di stanza sul territorio romano, hanno iniziato una campagna denigratoria che risponde in primo luogo a un’esasperazione di parte della popolazione che sembra non capire i termini di questa battaglia artistica da un lato e politica dall’altro, determinando – come accaduto anche a chi scrive – con la distanza da quest’ultima il malumore di non vedere attenzione verso l’unica via possibile per un teatro, ossia che ci si faccia teatro, meglio ancora che vi si imposti una netta idea di teatro.
Ma c’è un altro motivo per cui le redazioni di cronaca e cultura si sono scatenate in avventurose cavalcate guerresche. Il loro puntiglio sorprendentemente virtuoso nell’elencare tutti i reati degli occupanti (colpevoli semmai giusto di aver cercato una forma per contrastare l’iniquità monopolista) nasce da un altro tipo di esasperazione, quello che chiede conto alla rinnovata sinistra di Marino tornata al soglio capitolino, ossia la parte che molti ritengono più consapevole di “cose culturali”, di fare ciò che la giunta del vecchio sindaco immobilista aveva sempre evitato di affrontare (come, del resto, uno straordinario buco di bilancio ora venuto alla luce e appianato per intervento statale): sgomberare gli occupanti e restituire il teatro a chi… ecco, appunto: a chi? Non nego che, come altri osservatori di più lungo corso, ho nostalgia delle monografiche stagioni valligiane che l’ETI ha avuto qualità di regalare nei suoi ultimi anni di vita, sotto la direzione di Ninni Cutaia, non nego che questa città stia soffrendo una forte emergenza di spazi soprattutto pubblici e che sia impensabile un Teatro di Roma con una sola sala, l’Argentina, come adesso e per chissà quanto. Ma il panorama è così desertificato da non lasciar intravedere molto all’orizzonte. Non dimentichiamo che l’occupazione nasce dal pericolo che il teatro finisse in mani private; quando poi – già occupato – è stato assegnato al Comune di Roma presumibilmente perché lo immaginasse all’interno di un circuito con il Teatro di Roma in testa, le mancate proposte ideative da un lato e la convinzione degli attuali “comunardi” di poterne fare una battaglia più ampia hanno determinato uno stato di cose che non ha mai davvero impostato sul Valle un’idea di progetto culturale delle amministrazioni. Questo Valle dunque cos’è: Bene Comune o bene del Comune?
E allora, basculanti tra le criticità politiche che la neonata Fondazione Teatro Valle Bene Comune continua a suggerire e la necessità di un progetto artistico che venga da chiunque sia, è stata presentata la prima stagione di un Valle Occupato con un’idea di direzione artistica, fondata sulla formazione e su un particolare tipo di redistribuzione delle ricchezze. Ammesso che ce ne siano.
Nonostante la stagione Altresistenze 2013.14 si dichiari come «la prima prova pratica dei principi scritti sulla vocazione», per tutto ciò che ho scritto finora ritengo sia il caso di dividere i due percorsi, affidando primato all’intento artistico e alla proposta finalmente esplicitata: più che per gli spettacoli in cartellone tra cui si segnalano presenze come Fanny & Alexander, Mario Perrotta, Motus, Antonio Latella, Balletto Civile, Familie Flöz, l’anno del Valle si promette importante per la grande cura di una formazione estesa su più campi, che attraverserà tutte le arti in una formula di condivisione dell’ispirazione e delle capacità creative; questo settore formativo, cui né l’ETI né il Teatro di Roma né la Fondazione Romaeuropa hanno mai dedicato attenzione (perché banalmente non è nelle loro vocazioni), porterà avanti dei percorsi creativi collettivi seguendo la linea del laboratorio di drammaturgia Crisi, tenuto lo scorso anno da Fausto Paravidino, che ha prodotto lo spettacolo Il macello di Giobbe, nato dalla penna di tanti giovani drammaturghi.
Altro versante è quello molto atteso dell’economia. Impostando ancora il biglietto come sottoscrizione consigliata, differente a seconda della proposta, il Valle ha ideato un formulario complesso e propositivo per la redistribuzione sostenibile. Aggirando la SIAE (come tutti vorrebbero e che loro forse hanno solo avuto il coraggio di affrontare), la formula prevede una “autotassa” del 2,5% dal totale incasso direttamente per l’autore dell’opera, poi un altro 5% finirà in una cassa che chiameremo “comune”, una specie di cuscinetto etico con cui i progetti più remunerati pagheranno quelli definiti più “rischiosi”. Ma non è tutto. Quel che resterà del totale frammentato sarà diviso al 50% fra la compagnia e il teatro, al fine di costituire una diaria di 65 euro per ogni lavorante dello spettacolo, dal regista al tecnico indifferentemente, che sarà presa dal fondo comune nel caso gli incassi fossero minori. Il Valle inoltre provvederà al vitto e – contestualmente alle opportunità – agli alloggi, tenendo al vaglio la possibilità di coprire le spese per viaggi lunghi con un contributo del 50%.
Dunque un Valle che risponde alle critiche rilanciando sulla coesione territoriale e su un progetto artistico impostato molto su un’idea di teatro che non ponga confini tra formazione e creazione – ci saranno anche piccole esclusive come i “sindacali” del lunedì per chi vuole tenersi in attività con l’allenamento professionale o l’apertura verso il progetto Art You Lost? assieme alle compagnie “storicamente giovani” del panorama indipendente romano – al netto degli spettacoli proposti di cui si valuterà volta per volta la qualità. Ma, certo, in altre sedi e di altri abiti vestite, diverse persone si stanno occupando del Valle vagliando interventi più o meno accomodanti. Il destino di questa esperienza pertanto non dipende soltanto dalla qualità del suo progetto. Questa è la difficoltà degli occupanti, ma insieme la loro forza cui la precarietà dona ancora maggiore vitalità. Si potrà intervenire a sedare uno spunto lungo tre anni, è vero, non si potrà mai però cancellare che il Valle c’è stato, c’è ancora e produce in noi tutti un continuo dibattito interno ed esterno che stimola l’unico valore davvero contemporaneo. La forza indomita della contraddizione.
Simone Nebbia
Grazie per aver spiegato meglio e reso pubblico come funzioni la Fondazione: se le cose stanno così, il Valle è davvero un esempio di “nuovo”, per lo meno una proposta verso qualcosa di “altro” dal solito sistema: certamente una proposta perfettibile, certamente con molte ombre, ma anche con molti punti di forza, ne sono convinto. Tuttavia, c’è un grande “però” che mi perplime. La stagione da loro congeniata non mi sembra nulla di “nuovo”, anzi propone artisti che ricevono o hanno ricevuto finanziamenti altrove, che sono nel sistema in media da dieci anni e che sono perfettamente “dentro” il sistema facendo tournée anche in piazze convenzionali. Insomma quali sono i criteri di scelta di queste compagnie? E anche l’idea di finanziare come prima produzione della Fondazione, un lavoro di Paravidino, con tutto il rispetto per l’artista, mi lascia molti dubbi su quanto il sistema Valle non sia poi tanto diverso dalle altre lobby del teatro e un modo per crearsi a propria misura il proprio spazio.
C’è stato forse un bando? Ci sono state delle pari opportunità per sottoporre le varie proposte? Chi è che decide? Secondo quali criteri? C’è stato un comitato artistico che ha visionato centinaia di proposte di spettacoli da inserire in stagione? Non mi sembra…E questa non la trovo una cosa trasparente e democratica.
Ricordo il compianto Franco Quadri (scopritore di talenti come Paravidino che è ora al Valle) criticabile per le sue scelte del tutto personali, però pagate per lo più coi suoi soldi privati e non con Beni Comuni. Immagino e sono convinto, da semplice spettatore e amante del teatro, come spesso mi capita di vedere in teatri di provincia o in “sottoscala” dove vanno in scena spettacoli autoprodotti, tanti teatranti che esistono e che però “non esistono” , semplicemente perché non sono né nella lobby del Valle né nelle lobby del Teatro, stabile o alternativo che sia: nessun critico, neanche quelli che tanto parlano di sistema teatrale da svecchiare, neanche i giovani critici di webzine interessanti come questa che leggo sempre volentieri e in cui tuttavia vengono recensiti i soliti nomi, ha voglia e piacere di andare a scoprire.
Grazie Luca di aver letto. Comprendo entrambe le rimostranze e tento di rispondere.
Per ciò che riguarda il Valle non sono d’accordo nel generalizzare il problema, come già scritto questo è un passaggio decisivo, fra i pochi, per portare il teatro in teatro seguendo una direzione artistica (non quindi esclusivamente politica) che non è democrazia né rappresentativa né partecipata, ma un’intenzione ben precisa, una visione di ampio raggio artistica e culturale. Se poi è fatta da spettacoli brutti, questo può essere, potrà essere, ma l’abbaglio non pregiudichi la necessità di non annichilire le differenze, le scelte. Altrimenti c’è il rischio che democrazia sia sinonimo di omologazione e che la ricerca della differenza dal sistema “sempre malato” blocchi qualsiasi movimento.
Sul seguire compagnie piccole e di talento. Beh, sono tanti ormai gli anni che ci proviamo, ma dobbiamo mantenere un equilibrio. È un po’ più complicato di come sembra: in primo luogo ogni piccolo progetto deve avere attorno su queste pagine uno zoccolo duro di “soliti nomi” perché capiti di accorgersene, per il fatto che i “soliti” saranno ricercati e faranno movimento e traino anche per gli altri; secondo è la qualità di questi progetti che troppo spesso è bassa e onestamente, senza remore, si fa un po’ fatica ad andare sempre alla cieca; terzo punto, fondamentale: il nostro lavoro è fatto di entrambe le cose, teatri nuovi giovani compagnie ecc, su queste pagine ci sono sempre stati, ma non possiamo prescindere da un ruolo pubblico fin dove spinge l’interesse dei lettori; in ultimo poi: se non vedessimo spettacoli noti, quale sarebbe la nostra autorevolezza sulle aperture verso giovani artisti? Non avremmo parametri adeguati, solo parzialità in minore.
Questo, per dare ulteriori spunti di dibattito come ha fatto lei. Che ringrazio e invito a darci ancora la fiducia dimostrata. Cercheremo di non deluderla.
Cordiali saluti
Simone Nebbia
Caro Luca, grazie di aver letto.
Le questioni che proponi sono interessanti.
Mi permetto di aggiungere qualcosa a quanto detto già esaustivamente da Simone.
RIguardo alla proposta artistica: secondo me una cosa da cui in generale sarebbe bene staccarsi (e ci è capitato di dirlo e scriverlo in molte occasioni) è l’equazione “nuovo = buono”. Non è così. Da un lato basta guardarsi intorno e/o andare a sfogliare la storia delle arti (non solo quelle teatrali) e ci si accorgerà che ciò che di “nuovo e buono” la storia proponeva è arrivato sempre passando *attraverso* un processo di ricerca che è molto più complesso della semplice innovazione. Oltretutto lo stesso aggettivo “nuovo” ha (fortunatamente, come tutti gli aggettivi) uno spessore che include diverse diversissime sfumature. E dunque, lo dico senza complicità ma rendendo merito a quanto da critico, da giornalista e da osservatore ho constatato, il Valle sta in effetti lavorando in maniera matura e analitica sulla definizione di questo termine, tentando mi sembra di stabilire un equilibrio tra la proposta artistica e la modalità che la offre. Mi spiego. Quando parlo di diverse sfumature parlo anche del fatto che, chissà, Roberto Castello o Antonio Latella (per fare due esempi di artisti presenti lo scorso anno) potranno non essere nuovi (hanno entrambi una lunga storia) ma la maniera particolare in cui loro particolari materiali sono stati inseriti nel programma (per esempio circondandoli di laboratori pratici o seminari di incontro e discussione) aveva in effetti un carattere nuovo. Nuovo almeno rispetto alla prassi dei teatri (stabili) italiani, ché basta mettere il naso al di là delle Alpi e ritroviamo queste pratiche più che diffuse.
Poi. Il discorso che fai sulla scelta di sostenere Paravidino è molto sottile. La trovi una scelta in ogni caso autoritaria. E in parte, almeno retoricamente, hai ragione. Perché uso questo avverbio? Perché una presenza che non è mai mancata (volendola o “nolendola”) al Valle è stata proprio la retorica. Che forse è giusto non fuggire per partito preso, ma imparare a usare. E quindi sì, in un certo senso sì, decidere di investire innanzitutto su uno degli occupanti è una scelta autoritaria, ma anche una scelta che detta una retorica, la stessa secondo cui, pur circondati da una “democrazia partecipata” a decidere e anche solo a condurre le assemblee è stato e sarà qualcuno degli occupanti. Questo per dire che sempre con una forma di potere si avrà a che fare. La cosa più saggia, e ho tentato di scriverlo in altre pagine di questo giornale, sarà smetterla di alzare coda e pelo e inarcare la schiena di fronte a parole come queste, imparando a modellare gli spigoli di certi concetti con una sincera natura di innovazione rispetto ai modi in cui esse vengono declinate. Retorica, appunto. Retorica buona. Così come buona, buonissima può essere anche la lobby, che tu sembri citare come pratica esclusivamente negativa.
Infine, il procedimento con cui questa critica segue questo e quel teatro l’ha spiegato troppo bene Simone e io mi arrendo. 🙂 Ricordiamoci sempre che la critica non ha lo scopo di promuovere, per quello ci sono le società di promozione, ci sono gli uffici stampa. E ancora prima ci sono gli artisti stessi, che promuovono il proprio lavoro… con il proprio lavoro. Il nostro compito è quello di offrire una mappatura e di fare di tutto perché quella mappa possa essere considerata autorevole. Le cartine dell’Istituto Geografico Militare non segnano solo le grotte più splendide grotte nascoste, ma anche il Grand Canyon. Con la stessa accuratezza. Sarebbe bello avere le energie per raggiungere quell’accuratezza. Da parte nostra andiamo avanti con quelle che abbiamo, messe sempre al servizio di una e una cosa sola: il teatro e i suoi spettatori.
un saluto,
Sergio Lo Gatto
Non vogliatemene ma trovo le vostre posizioni un po’ scritte in “politichese critico” e mi sono un po’ perso nel leggerle…
Cercherò di rispondervi e di spiegarmi meglio.
Non ritengo che nuovo=buono e che un cartellone del Valle dovrebbe essere totalmente fatto da nomi sconosciuti o che voi critici dobbiate recensire solo spettacoli di ignoti, ma è una questione di proporzioni: dovrebbe esserci, in un cartellone teatrale che si pone come “alternativo al sistema”, almeno un 20 o 30% di spettacoli di gente che altrimenti altrove non avrebbe spazio.
Non per una questione ideologica, ma proprio per un principio di democrazia e pari opportunità. Inoltre, bisognerebbe capire chi decide e su quali criteri, e soprattutto dichiarare entrambi: fare forse un bando per dare pari opportunità di presentare i progetti? stabilire un comitato che selezioni non per “nomi che circolano” in una specie di passaparola, ma sulla base di valutazioni concrete?
Sulla questione dei critici dovrebbe avvenire un po’ lo stesso, secondo me. Avrò una visione romantica del critico teatrale, ma pur dovendo recensire spettacoli e stagioni convenzionali e istituzionali, lo immagino curioso e desideroso di dedicare parte del suo tempo a stanare nuovi talenti e non un burocrate che va a recensire i soliti amici. I critici, è vero, non devono essere degli uffici stampa o delle agenzie di promozione….ma mi sembra un alibi alquanto ingenuo o ipocrita (prendete i termini con le pinze): c’è sempre stata e sempre ci sarà “connivenza” tra uffici stampa e critica, non raccontiamoci balle. Non faccio teatro di mestiere ma ho avuto modo di conoscerlo da vicino per poter verificare che agli spettacoli vanno i critici già amici di quella compagnia o dell’ufficio stampa che la promuove e che il potere di un ufficio stampa è proprio avere amici critici da far venire a teatro di persona ….non ho mai visto critici andare a scovarsi da soli gli spettacoli da recensire.
Inoltre, non raccontiamoci balle anche su un altro punto: spesso uno spettacolo o un artista esiste solo quando viene recensito in modo positivo da qualche firma importante che subito salta all’attenzione delle direzioni artistiche e viceversa.
E’ un po’ un cane che si morde la coda.
Un altro punto interessante è questo: è vero che circola tanta amatorialità e ci sono tanti spettacoli brutti tra le cosiddette “novità” , ma dovrebbe essere proprio la sfida di un critico andare a vedere “tutto” e poi scegliere o trovare quello che trova interessante. Credo che fra i critici, come per la cronaca, ci possano essere i “reporter” che trovano le notizie/spettacoli e invece quelli ” da ufficio” che aspettano le agenzie/comunicati stampa e recensiscono i soliti nomi. Soprattutto i giovani di una webzine mi aspetterei fossero più “reporter” che non “da ufficio”…
Sono, invece, perfettamente d’accordo sullo slegare definitivamente la politica dalle direzioni artistiche, ma è proprio in questo che la programmazione del Valle mi perplime e che sospetto che certe abitudini e prassi della politica perdurino anche nell’arte, ad esempio il clientelarismo. Inoltre certe dinamiche di lobby non le vedo solo nei Teatri Stabili, ma anche nelle programmazioni “alternative”, dove circolano, ad altri livelli, i soliti nomi.
Sul Valle continuo a nutrire dei sospetti.
Voglio dire…(semplificando) se vado a vedere un cartellone commerciale c’è Ranieri, se vado a vedere un cartellone “alternativo” mi aspetto Latella? è questa la differenza fra le due programmazioni? La sostanza però non cambia, mi pare.
Non fraintendetemi, io amo Latella e ho amato in passato anche i Motus, ma da quanti anni sono sulla cresta dell’onda? Hanno bisogno anche della vetrina del Valle? O forse, faccio il malizioso, non riescono più a trovare molte altre piazze visti i tempi e visto magari che la loro creatività (parlo soprattutto dei Motus) si è parecchio affievolita rispetto all’iniziale spinta innovativa dei primi tempi?
Quali sono le pari opportunità per i tanti che non siano né “Ranieri” né “Latella”? Pari opportunità non significa che poi si debba per forza essere presi, ma almeno valutati, almeno poter “concorrere”….certo poi ci sarebbe tanto da discutere anche su chi valuta e decide e secondo quali criteri….Ecco su questo mi sarei aspettato che il Valle avrebbe avuto un atteggiamento più critico e propositivo.
Invece la sua prima produzione è a firma Paravidino, cioè i soldi raccolti da chi ha investito nel Bene Comune, servono a Paravidino a fare il suo nuovo spettacolo (frutto per carità di laboratori drammaturgici all’interno del Valle…..di giovani coinvolti nell’operazione…)!?
Proprio su Paravidino mi sono un po’ perso nel tuo ragionamento sulla retorica della retorica, perdonami, ma di certo alla sua giovane età (giovane in questo Paese) sarebbe stato difficile per lui avere la direzione artistica di qualche Stabile per via politica (l’unica via esistente per averne una, oggi) e si sa che solo avere un ruolo simile dà garanzia ad un regista italiano di avere la possibilità di scambiare i propri spettacoli e soprattutto di produrli….Ora Il Valle ha un cartellone con nomi piuttosto noti nel “giro” del “nuovo teatro” e una prima produzione artistica firmata da Paravidino: scusate, ma non vedo la differenza con le scelte di un qualsiasi Stabile, tranne per il fatto che lì decidono i politici e qui non si sa ancora bene chi abbia deciso, secondo quali criteri, visto che una Fondazione, per certi versi, è un po’ come una Trust….non si sa bene chi muova i fili.
PS: Non inarco la schiena, dico solo che se il Valle vuole essere alternativo al sistema della cultura gestita dalla politica, non dovrebbe come primo atto usare l’autoritarismo tipico del sistema politico, soprattutto quando non si tratta di un atto fatto da un privato che, fino a prova contraria, se investe del proprio può decidere autoritariamente cosa finanziare con il proprio denaro. Ma in questo Paese non siamo forse tutti scontenti proprio per il fatto che con beni pubblici vengono oramai fatte solo scelte “autoritarie” a favore di chi ha le mani in pasta? Se dici che Paravidino è stato scelto perché era uno degli occupanti, mi sembra un’affermazione portatrice di una verità molto grave: chi ha occupato lo ha fatto solo per il fine di essere nella cordata che poi avrebbe tratto un giovamento personale dall’occupazione e non quindi per lottare al fine di ideali condivisi di cui avrebbe beneficiato tutto il sistema teatrale?!
Caro Luca,
Bello che ci sia tutto questo confronto. Bello soprattutto che tu abbia idee da un lato molto interessanti, da un lato molto chiare e da un lato, perdonami, che credono di avere il polso della situazione un po’ più di quanto sia in realtà.
Riguardo al Valle, i dubbi che nutri sono gli stessi nostri, fatti soprattutto di attese, attese che un progetto culturale così (indiscutibilmente) rilevante tiri fuori in maniera chiara, la stessa che professa di voler professare, le linee guida che dettano la presa delle decisioni. Senza dubbio. Così come sappiamo bene che non basta dire “lobby è anche un termine positivo, altrove lo è”, quando siamo circondati di esempi che sembrano gridare il contrario.
Ti rispondo con una nota al volo sulla questione della critica. A un certo punto dici “avrò una visione romantica del critico”. Ti rispondo che, romantica o no, hai di certo una visione non realistica. Senza che – ti prego – tu prenda queste parole che seguono come una lagna, NON è così, altrimenti TeC avrebbe chiuso da tempo e non avremmo il piacere di star qui a discutere: riguardo a tutta questa struttura di cui parli, tra reporter da ufficio e reporter sul campo, etc., mi permetto in maniera del tutto pacifica di risponderti che quella struttura, in una webzine come la nostra o come altre, non può esistere perché nessuno la sosterrebbe. Mi sembra che tu mischi le carte con un po’ troppa facilità, mettendo sullo steso piano di pratiche di lavoro le firme dei quotidiani e quelle che trovi qui. Purtroppo (o per fortuna, forse per fortuna) le due strutture, tra carta stampata e web, funzionano in maniera molto diversa. Ci piacerebbe tanto prendere armi e bagagli e partire, andarcene a Napoli a intrufolarci per capire che cosa accade in questo o quel teatro, parlare con questo o quell’artista. Ma le economie non è che sono scarse, non esistono proprio. Due stagioni fa avviammo un lavoro certosino in una rubrica, i Consigli, in cui settimanalmente pubblicavamo stralci dei cartelloni *di tutta Italia*, permettendoci di consigliare anche cose non viste, dando dunque credito al complesso del lavoro artistico presentato da questo o quel cartellone. Questo proprio per stimolare gli spazi a mandarci informazioni che ci facessero capire meglio di che si trattava questo o quello spettacolo che prima o poi avremmo avuto modo di vedere.
Tu parli dell’andare a vedere “tutto”. Io non sono sicuro che si possa fare un discorso così radicale. Tutto ha diritto ad andare in scena? Certo, per principio, sì. Ma in una città come Roma, in cui – ti prego, sfoglia meglio queste pagine e te ne renderai conto, ci è capitato e ci capita di andare a cercarci artisti e teatri, non solo di proprietà di amici e conoscenti!!! – ti trovi spesso di fronte a gruppi il cui lavoro (buono o no che sia) viene presentato al pubblico perché il gruppo ha trovato il modo di pagare una sala a affitto. Questo, ad esempio, è uno dei criteri che cerchiamo dove possibile di applicare sullo scegliere che cosa vedere e che cosa no. Se io vado a recensire un gruppo che ha pagato l’affitto di una sala e non vado a recensire chi quei soldi non è riuscito a trovarli, che mondo sto davvero raccontando? Meglio allora andare a cercarci direttamente gli artisti e parlarci, fare approfondimento critico *direttamente con loro*, capire come lavorano. Addirittura senza la necessità di pubblicare niente. Questo per dire due cose: forse il termine “recensione” viene usato ancora in una accezione che ha perso molto del proprio ruolo (vedi il tuo “essere romantico”) e forse occorre capire che fare critica oggi *non è solo andare e recensire*, ma organizzare momenti di incontro, partecipare a convegni e festival, condurre o partecipare a laboratori e seminari etc. L’autorevolezza (soprattutto sul web) non te la costruisci così. E, in gran parte, è proprio a causa di quel meccanismo che giustamente rilevi, secondo cui solo le buone recensioni (magari di un critico importante) servono a far conoscere lo spettacolo.
Cominciamo allora a pensare che la critica sia comunità, innanzitutto. E quindi a realizzare, da attori o osservatori di questo ambiente, che lì bisogna andare, non altrove. Non a recensire, ma a raccontare. Non a fare promozione, ma a collaborare (perché no?) con gli uffici stampa che sono o dovrebbero essere un’antenna sul territorio e non solo gente che fa promozione, un tramite verso la stampa. Tanto che (MOLTO IMPORTANTE) nelle “romantiche” istituzioni pubbliche o anche private ma che possono permettersi economicamente questo lusso, l’addetto stampa e l’addetto alla promozione sono due figure distinte, con gli uffici spesso ben lontani uno dall’altro.
Grazie davvero di questo confronto. Come vediamo, serve a tutti, a noi di certo, per dare una rotta sempre aggiornata al nostro lavoro.
un caro saluto,
Sergio Lo Gatto
Il confronto, anche su diverse posizioni, credo che sia sempre positivo. Mi pare però che le vostre risposte eludano un po’ le parti più “calde” delle mie osservazioni e lo scrivo non per fare polemica ma per farlo notare anche a chi capitasse a leggere questo nostro scambio di vedute. Solo due appunti alla tua difesa della vostra linea editoriale che di certo non era il centro del nostro dibattere, visto che eravamo partiti dal Valle, ma capisco che vi stiano più a cuore questioni riguardanti il personale. Proprio perché siete una webzine e non una redazione di un giornale stampato avete più libertà di movimento: pur non avendo denari per girare tutta Italia, sicuramente ciascuno nella sua città può scegliere cosa andare a vedere e recensire. Mi sta anche bene il discorso di non andare a vedere spettacoli di dubbio valore che magari stanno in scena solo perché hanno pagato l’ affitto di una sala, ma allora neanche affidarsi a degli uffici stampa altrettanto pagati dalle compagnie dovrebbe essere un criterio valido, visto che anche questa possibilità è basata sulle possibilità economiche di una compagnia. Sul fatto che avete segnalato i cartelloni di stagioni teatrali in giro per l’Italia, apprezzo il fine nobile, ma per chi conosce un po’ di marketing online sa bene che pubblicare un comunicato stampa non costa nulla in termini di tempo di scrittura e aumenta il traffico di un sito nei momenti di scarsità di contenuti da pubblicare, è quello che in giornalismo si chiamerebbe un “pezzo freddo” pronto al bisogno: non è un crimine, è prassi editoriale 😉 Non fraintendetemi, ho rispetto del vostro lavoro e mi piace leggere e navigare la vostra webzine.
purtroppo rilevo diverse informazioni errate nell’articolo:
– il teatro di Roma dispone della sola sala del Teatro Argentina anche e soprattutto a causa dell’occupazione del Valle, avendo la stessa bloccato i fondi per il restauro del Teatro India.
– il teatro Valle non sarebbe stato dato in mano ai privati (e meno che mai diventato un ristorante) ma affidato al Teatro di Roma, che potenzialmente con tre sale sarebbe diventato teatro d’Europa, accedendo a fondi europei, scambi e facilitazioni.
– presso la sezione spettacoli del Comune di Roma era già stata depositata la stagione futura del teatro Valle, redatta dal direttore artistico Lavia e divisa in 4 filoni, tra cui una parte dedicata al teatro minore e composta molto meglio di quello che sono riusciti a fare gli occupanti in tre anni…
– la formazione proposta dal Valle impiega professori mai riconosciuti, persone senza una esperienza necessaria ad insegnare, spesso improvvisati.
– dagli incassi (che per un primo periodo non sono stati conteggiati e sono spariti nel marasma degli occupanti) non viene detratto niente di niente, sia per l’autore che per chiunque lavori. senza alcun tipo di percentuale viene dato un rimborso spese a qualcuno, ma tiotalmente in nero.
– e poi tocchiamo l’assurdo: il Valle penserà a vitto e alloggio: cioè diventa un ristorante / hotel, di quelli che non paga alcuna tassa e che rifiuta qualsiasi controllo da parte dell’ufficio d’igiene.
per scongiurare il finto pericolo che il teatro diventasse un ristorante, il teatro è diventato un ristorante. che coerenza.