Come tornare a raccontare le dittature del secolo passato? Ci prova DICTAT (Performative Culture Cooperation for Awareness on Past European Dictatorships), un progetto ideato dalla compagnia del Teatro Magro di Mantova, che ha ricevuto il sostegno del Progetto Cultura 2007-2013 dell’Unione Europea e che si configura come un percorso itinerante in quattro paesi. La collaborazione di quattro registi e otto attori provenienti da Italia, Polonia, Romania e Spagna ha portato all’allestimento di uno spettacolo che ripercorre la storia delle recenti dittature europee. Dopo la conferenza internazionale tenutasi il 10 settembre nel Palazzo San Sebastiano di Mantova – dedicato al tema Il teatro come strumento di dialogo interculturale e che ha previsto gli interventi di Mimma Gallina, Alberto Grilli, Michele Losi, Andrea Pignatti –, lo spettacolo ha poi debuttato il 13 settembre sempre a Mantova presso il tempio San Sebastiano, e sarà riallestito nelle scuole mantovane e in alcune città dei paesi partner.
Flavio Cortellazzi (Teatro Magro), Radek Garncarek (MCK Belchatow), Marian Milea (Fundatia Parada) e Alejandro Corral (Agrifodent) dirigono Alessandro Pezzali e Marina Visentini, Katarzyna Paradecka e Krystian Wieczyński, Gabriel Bucur e Marian Milea, Luis Arenas Barranco e Encarnacion Iañez Alcalá in brevi quadri giustapposti il cui filo conduttore è la ricerca della verità. Gli uomini e le donne senza identità che si vedono in scena tentano infatti di capire come sia stata possibile l’apparizione di alcune sanguinose dittature recenti, che hanno sfigurato la cultura del loro paese di origine. Ne nascono così alcune azioni sceniche suggestive e ricche di allusioni Ceaușescu, Franco, Mussolini, Jaruzelski, che ne rivelano con maggiore evidenza non solo la già nota mostruosità, ma anche i risvolti segreti e le cause nascoste sia del loro imporsi che del loro disfarsi, impercettibili a chiunque non abbia subito il loro pugno di ferro.
Due sono gli spunti poetici che Dictat offre allo spettatore: la sconcertante somiglianza tra la dittatura e il rapporto amoroso: quattro attori abbracciano e poi strappano le fotografie dei quattro dittatori, nascoste sotto un cerchio di farina collocato al centro dello spazio, mentre altri due interpreti simulano l’inizio e la rottura di una relazione di una coppia di fidanzati; o ancora un’attrice intona una ninnananna sotto i rumori dei bombardamenti. Una fiducia irrazionale sembra dunque legare il suddito al dittatore, che diviene quasi una figura genitoriale, eppure parte della motivazione per cui le dittature ricompaiono pare essere una sorta di nostalgia dell’atmosfera di festa che si provava durante il periodo di propaganda, in qualche modo simile alle emozioni del primo amore.
In latino, l’indicativo presente Dictat («egli dice», «egli comanda») potrebbe essere interpretato come un impersonale «si dice» / «si comanda», ossia come un imperativo che non trae la sua origine da un agente diretto. Ceaușescu, Franco, Mussolini, Jaruzelski non sarebbero in questo senso i veri autori dei loro imperi dittatoriali, bensì semplici intermediari, che seguono senza rendersene conto gli ordini di padroni nascosti. Ogni dittatore umano sarebbe, dunque, animato da “dittatori segreti”, nello spettacolo identificati con i bisogni, i confini geografici e la lingua. Una dittatura visibile sorge dalla dittatura invisibile della fame e del potere (vedi la scena in cui gli attori si accalcano per un pezzo di carne). Deriva dalla necessità di consolidare o allargare il dominio delle proprie frontiere, come sembra emergere dalla lotta che i personaggi intraprendono quando un laser divide a metà il loro spazio. O infine, spunta dalla sostanza stessa della lingua, che impone concetti e opposizioni semantiche, costringendo i parlanti a ritagliare la realtà in un certo modo piuttosto che in infiniti altri. Gli attori recitano infatti nelle proprie rispettive lingue, invece di adottarne una comune: l’inglese è definita come la lingua dittatoriale di massa per eccellenza. Ci si potrebbe chiedere se questi brevi quadri dicano davvero qualcosa di essenziale circa le dittature, oppure esprimano in maniera vaga aspetti che debbono essere approfonditi meglio da altre discipline, come ad esempio la ricerca storica.
Eppure la potenza del teatro sta proprio nella sua capacità di alludere senza spiegare a cose che l’analisi storica o scientifica, che si muove sempre nella dittatura del linguaggio, non sa far vedere, neppure nei suoi momenti più ispirati. Nello svelare le cause delle dittature, un lavoro come Dictat, ne combatte con successo il ritorno. Rifuggendo la quiete di archivi e biblioteche e andando oltre erudizione e intelletto, gli attori mettono in scena tutto il proprio essere, e arrivano a sporcare il loro corpo durante i loro sforzi di comprensione dei concetti. La loro sete di verità si fa analoga al bisogno fisico di lavarsi dalle impurità e dalle brutture, come quando si tenti di recuperare un gioiello dal fondo di una palude putrida.
Enrico Piergiacomi
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DICTAT
scritto e diretto da Flavio Cortellazzi (Teatro Magro), Radek Garncarek (MCK Belchatow), Marian Milea (Fundatia Parada) e Alejandro Corral (Agrifodent)
con Alessandro Pezzali e Marina Visentini, Katarzyna Paradecka e Krystian Wieczyński, Gabriel Bucur e Marian Milea, Luis Arenas Barranco e Encarnacion Iañez Alcalá