Ha aperto il 20 ottobre e riaprirà per altre cinque domeniche fino a metà marzo il progetto Giardino d’Inverno, ideato da Teatro delle Apparizioni in collaborazione con Angelo Mai Altrove Occupato, uno spazio ideale e fisico dedicato non solo ai bambini, ma alle famiglie. Performance sparse qua e là, un’unica grande area “giocabile” fatta come un percorso da parco-avventura e piccoli concerti pensati come «punto d’apice, come culmine della giornata», che va dalle 11 alle 19 e comprende dunque anche il pranzo, fondamentale momento di socialità. Un vero e proprio spazio modulare dove si mangia, si gioca, si legge, si guarda. Ci si guarda, anche, ci si incontra. Un sistema di fuochi di attenzione disposti in maniera “concentrica” tiene unito gruppo a gruppo, lo si vede negli sguardi che le giovani mamme e i giovani papà si scambiano, spesso senza neppure accorgersene. Non c’è in quegli sguardi giudizio alcuno, solo la curiosità di vedersi a vicenda all’opera dentro una pratica quotidiana che segretamente si pensa sempre esclusiva, personale, in qualche modo unica. E invece eccolo lì, a portata di mano, il momento per imparare a guardarsi tutti insieme, trasformando quella pratica in un’occasione di unione, tutti insieme a smettere di sentirsi speciali per cominciare invece a esserlo davvero.
Si parla a volte (se ne parlerà anche su I quaderni del Teatro di Roma in un intervento proprio di Fabrizio Pallara, che qui compare come ideatore del progetto) di quanto il teatro ragazzi sia diventato marginale, di quanto da luogo privilegiato della sperimentazione stia rischiando di trasformarsi in un laboratorio deserto, in cui le reazioni chimiche tra le energie coinvolte sono troppo spesso ostacolate da difficoltà sistemiche, come se certi strumenti si fossero spuntati e avessero perso la propria efficacia. E allora certo si sente il bisogno di ripensare certe logiche, di avere il coraggio di affrontare nuovi linguaggi, di promuovere davvero il teatro delle generazioni che verranno come una reale ambasciata di cultura, proprio quella che a troppo pubblico di oggi sembra mancare. Urgenza culturale, dunque, prima ancora che artistica, se riusciamo ad accettare il fatto che a un certo punto della storia di un paese (questo, che ormai cominciamo a conoscere) i due aggettivi si siano separati imboccando strade troppo lontane. Allora la necessità diviene quella di ricostruire le opportunità di incontro, e Giardino d’Inverno va in quella direzione. Anzi, sta lì ad accogliere chi in quella direzione si è già incamminato, credendo fortemente in questi piccoli e importanti principi. Che non sono solo parole, ma atti.
Lo spazio è uno spazio occupato, l’Angelo Mai Altrove di Via delle Terme di Caracalla, oltre i confini dell’offerta culturale istituzionale eppure spesso aperto ad accogliere modelli ideali di gestione e, ci piace dire proprio in questa occasione, di immaginazione. Nel trambusto disordinato e vitale del capannone (nel quale sta incastonato l’allestimento progettato dall’architetto Sara Ferazzoli, vedi foto) brulicano voci più o meno sottili, risuonano i colpi di vari oggetti sbattuti con gioia estrema su varie superfici, profondi toni adulti si mescolano a quelli squillanti delle piccole creature che, fin dal primo ingresso, obbligano i grandi a stare attenti a dove mettono i piedi. Sfilano trenini con i vagoni (che sono cassette della frutta) carichi di bambini dallo sguardo sognante, qualcuno assorto nel capire il funzionamento di quel trabiccolo, altri che brandiscono spade di legno e imbracciano secchi multicolore. E poi la musica. Pino Marino cura un piccolo spazio strumentato sul palco (pianoforte, chitarra, fisarmonica, diamonica a fiato, una radio anni Trenta illuminata da una abat-jour fatta di imbuti di plastica), animato da lui stesso la prima domenica e che sarà poi aperto, nelle domeniche seguenti, al transito di altri artisti. Quanto al dj-set, da subito scongiurato lo spauracchio delle orecchie di tutti i genitori, alle quali le domenicali feste dei bambini non fanno che ricordare come insomma alla fin fine Questo è il ballo del qua qua e c’è un papero che fa etc.. No, niente di tutto questo. All’ingresso ci accoglie Paul Simon che canta America e Me and Julio Down by the Schoolyard, con gli urli della folla di Central Park che sembrano montati ad arte sugli schiamazzi dei bimbi. Lo seguirà Edoardo Bennato, prima che le dieci dita di Pino Marino si posino sul pianoforte e improvvisino una leggiadra colonna sonora strumentale, mentre di là si spignatta e si sforchetta per il pranzo, risotto o lasagne da gustare tutti insieme alle tavolate con gli scacchi rossi. Una festa, ecco, una festa.
Ispirata ed ermetica musica “da adulti” e spade di legno, si diceva, che farebbero storcere il naso a molti educatori ed educatrici. Secondo Fabrizio Pallara c’è bisogno di solo due cose: «Mani e testa. I soldi, pochi, non guastano, ma non sono necessari. Qui è tutto materiale riciclato». Tubi di plastica che diventano scivoli o torri da costruire e poi buttare giù, pneumatici da far rotolare o usare come confortevoli poltrone.
Sugli scaffali dello stand della libreria per bambini e ragazzi Ponte Ponente nel quartiere Ponte Lungo, spicca anche il bel volume Il mondo incantato di Bruno Bettelheim, il cui lavoro di interpretazione delle fiabe da ormai 38 anni (era il 1975) sembra evidenziare una e una sola “morale”: trattare i bambini non come creature aliene da rinchiudere dentro giardini di protezionismo intellettuale, ma come gli occhi che si portano dentro il futuro e ce lo consegnano. Al di là di tutta la possibile retorica, uno sguardo al futuro del teatro deve cominciare dal presente. Per dare forma al teatro di domani dobbiamo formare gli spettatori di oggi. E questa festa della comunità, in cui le generazioni finalmente si incontrano e vivono insieme il fatto culturale, è il modo giusto. Forse l’unico.
Sergio Lo Gatto