Lo scorso 27 settembre il Mancinelli Teatro Stabile di Innovazione di Orvieto ha ospitato il secondo incontro annuale dal titolo Naufragi e Vocazioni. L’argomento di quest’anno avrebbe programmaticamente messo al centro l’esistenza o meno di una «grammatica teatrale in grado di mettere in relazione tempi e luoghi differenti», qualcosa che si presenti agli occhi del pubblico (soprattutto quello dei giovani) andando oltre la semplice ricerca di “innovazione”. Eppure, neanche a farlo apposta, per l’intera prima parte il tavolo di lavoro coordinato dal giornalista e critico Marcantonio Lucidi – che ha ospitato interventi di Titta Ceccano, Filippo Gili, Fabio Morgan, Maurizio Panici (direttore dello Stabile umbro), Luca Ricci e Matteo Tarasco – si è soffermato su un’altra possibilità sempre in crisi, quella che esista un reale «passaggio di consegne» tra le generazioni del teatro, sia in senso artistico che in rapporto alle dinamiche di sistema.
Morgan, che ha acquistato il Teatro dell’Orologio (storico spazio dell’epoca delle “cantine romane”) da Valentino Orfeo, ha raccontato di non essere mai stato, prima di firmare, tra i suoi spettatori; di aver voluto compiere un «atto reattivo, mettendo i piedi sul tavolo», indebitandosi «per prendere pieno possesso di un luogo culturale». A dispetto di molti esempi, non solo di esponenti delle generazioni passate ma anche di alcuni dei suoi coetanei, per lui resta invece ancora vivo il concetto secondo cui «ereditare non è aspettare, ma conquistare. Non che chi faccia cultura debba essere riconosciuto a priori: si fa e se quel che si fa è valido allora bisogna esigere un riconoscimento». Secondo il giovane impresario e attuale presidente della Consulta dei Teatri in Agis Lazio «un patto generazionale è impossibile. Ma per chi è nato non nell’era della costruzione ma della decostruzione, una soluzione è arrivare sui tavoli avendo diritto di parola». Qualsiasi convivenza di generazioni, insomma, è pensabile solo se si punta innanzitutto alle condizioni pratiche, dentro le quali occorre ripensarsi «imprenditori culturali, rimettendo al centro alcune dinamiche che ricostruiscano con forza la presenza del pubblico» e riportando l’attenzione al concetto di rappresentanza. Va da sé che il passo successivo sia stato un’amara nota sullo spreco sistematico delle risorse da parte delle istituzioni che controllano i settori dello spettacolo dal vivo.
Secondo Ricci un «passaggio di consegne» è invece possibile, «ma le pratiche devono essere pratiche nuove. Non basta che i soldi vengano investiti, serve invece capire se quell’investimento funziona: ci sono enormi strutture, come fondazioni e stabili pubblici che però pesano sugli artisti perché funzionano con organici troppo ampi». Riguardo al flusso delle risorse pubbliche, poi, affiora – a fianco di quelli di sostenibilità e sopravvivenza – il concetto di «dignità». Gli artisti dovrebbero e vorrebbero «lavorare sul tema della bellezza, su quel fuoco che si sente e dà la voglia di creare, ma oggi le estetiche non sono la priorità, lo sono le condizioni in cui le estetiche si possono esplicare». C’è poi chi, come Tarasco, propone modelli di finanziamento esclusivamente o quasi di carattere privato, in parte mitizzando sistemi come quelli nordeuropei, posizione contro la quale si alzano di nuovo le voci di Morgan e Ricci e quella di Ceccano (autore e regista della compagnia Matutateatro, in residenza al Mancinelli), che racconta la vicenda del proprio piccolo teatro a Sezze, da anni ormai costretto a rinunciare ai finanziamenti che pure ne avevano avviato le attività.
Per quanto sia lodevole che certe esperienze (ripensiamo all’orgoglio espresso dagli organizzatori di alcune rassegne interamente indipendenti) riescano a sopravvivere nonostante l’incuria delle istituzioni, siamo certi che la prospettiva di totale “autogestione”, per usare un termine molto popolare di questi tempi, sia la reale soluzione? Forse sarebbe più importante presentare tali risultati non tanto con l’atteggiamento sprezzante di chi va avanti malgrado tutto, ma come il segno ultimo di un’emergenza viva, di una sirena d’urgenza – questione sollevata proprio alla conferenza stampa di presentazione dell’audace impresa di Dominio Pubblico. Qualcosa che apra davvero le orecchie alle istituzioni, affinché la dimensione di una cultura accessibile e sostenuta dal pubblico torni a essere necessaria.
Se nella seconda parte dell’incontro gli artisti e gli operatori presenti si sono lanciati nell’immaginare, sotto l’ala del Mancinelli, un progetto collettivo di creazione e cura che coinvolga drammaturghi, registi, attori, formatori e critici attorno a una grammatica teatrale condivisa, due esempi di vitalità artistica – necessari a qualsiasi verve di politiche culturali – sono stati presentati proprio nelle sale orvietane, il Teatro del Carmine e lo stesso Mancinelli. Matutateatro ha mostrato al pubblico l’esito del lavoro di residenza artistica in una fredda e severa versione di Antigone, mentre sul palco del bel teatro ottocentesco ha replicato GabbiaNO, felice variazione firmata dalla giovane compagnia Vanaclù: Woody Neri è interprete, regista e autore di un sedicente «dis-adattamento» dell’omonimo dramma di Anton Čechov, vincitore di ArgotOff 2013 e di cui avremo presto modo di parlare.
Certe volte il contesto in cui si fruisce il teatro influenza i suoi contenuti. O forse è il contrario. Ed ecco che entrambi gli spettacoli mettevano in scena, a modo proprio, sia la questione politica che il confronto generazionale, in fondo centrale in entrambe le materie drammaturgiche. Certo quegli eventi – come l’incontro ideato da Maurizio Panici – che attorno alla proposta artistica si preoccupano di costruire un ambiente di ragionamento hanno il pregio di far fluire un pensiero dinamico, dentro e fuori le performance. E, soprattutto, un’alternativa che va oltre il semplice transito di un’arte impacchettata e offerta in confezione al suo fruitore. Primi passi, questi, necessari per mettere in pratica alcuni dei buoni propositi di cui abbiamo tentato di dar conto in questa pagina.
Sergio Lo Gatto
Abbiamo ricevuto via email e su richiesta pubblichiamo una precisazione di Valentino Orfeo a proposito del passo in cui è citato (Red. TeC):
Sono Valentino Orfeo e ci tengo a precisare che, diversamente da quanto dichiarato dal sig. Fabio Morgan, io non gli ho mai venduto il teatro dell’Orologio. E’ piuttosto vero che lui se ne è illecitamente appropriato, anche con la violenza fisica, e non mi ha più permesso di entrare in teatro. Al riguardo è pendente un giudizio presso il Tribunale di Roma, dal quale confido di ottenere giustizia. Il suddetto Teatro ed in particolare la Sala Orfeo è una mia creazione da sempre ed il sig. Morgan sta facendo di tutto per portarmela via! Lascio a tutti coloro che da oltre trenta anni mi hanno seguito nel mio difficile percorso per portare avanti il buon nome del Teatro dell’Orologio, di giudicare il comportamento a dir poco piratesco e sleale di Fabio Caselli, detto Morgan.
Firmato
Valentino Orfeo