È sera. Neanche troppo tardi. Una coppia di ragazzi passeggia per il corridoio deserto che affianca i vecchi padiglioni rettangolari dell’ex mattatoio di Testaccio, non più in uso per fortuna, ora ci fanno le mostre, i concerti. Ci fanno i festival di teatro. E infatti la coppia per arrivare fin lì ha dovuto attraversare un ingresso dietro il piazzale di macchine parcheggiate per la serata nelle tante discoteche dei dintorni, poi è passata di fronte all’entrata del Macro dove se ne sta arrampicata fino in cielo la piramide di cespi che è la scultura-architettura Big Bambù dei gemelli Doug e Mike Starn (ecco svelato quell’incastro di bambù che si vede da Lungotevere…), è passata di lato e ha camminato fino ad arrivare in fondo, dove su un muro a caratteri grandi una scritta declama SHORT THEATRE e sotto DEMOCRAZIA DELLA FELICITÀ. Le diottrie e qualche incertezza di traduzione impegnano la ragazza che legge e pronuncia: «teatro piccolo», ma subito si corregge «no, no, breve teatro». La loro escursione poi, giunti al muro e verificata la faticosa lettura, termina con un dietrofront che li riporta al punto di partenza, alla macchina, poi a casa. Insomma, alla vita.
Questa, la fine dell’inizio della nuova edizione – numero 8 – del festival di Roma Short Theatre. La manifestazione a La Pelanda di Testaccio che apre la stagione, anche quest’anno. La festa di una comunità abbronzata che si ritrova, si riconosce, si racconta dove ha passato le vacanze (e se ne ha fatte). La festa che è sempre bello trovare a questo punto, sul limitare fra l’estate che sta terminando e il ritmo del calendario che incalza e promette di salire. Una festa officiata da Area 06, cui prendono parte il MIBAC e Roma Capitale, non più la Regione. Eppure era stata invitata. Una festa che a vederla oggi, tuttavia, inizia a sperimentare un rischio di farsi esclusiva, quando non escludente. Difficile mettere insieme una riflessione al primo giorno, ma questa è una stagione molto importante e ha visto forse una delle estati festivaliere più povere degli ultimi anni, desolate e conservative di idee e contenuti, di sviluppi, di battiti e ragioni esistenziali; occorre allora cominciare a mettere il naso fuori, cercando di capire perché il naso, dentro, non lo mette più quasi nessuno. Quali odori arrivano lì fuori ad ispirare l’inspirare? Ma soprattutto: ne arrivano?
“Democrazia della felicità” è il titolo di quest’anno. Lo spunto di riflessione. E allora lo innesca come di consueto il direttore Fabrizio Arcuri che in qualche riga dichiara lo Stato come territorio di indagine e in esso esprime il desiderio di «sovvertire semplicemente la dittatura della necessità, in favore di una democrazia, magari della felicità». Magari. Democrazia e felicità, sogni o chimere, sono con molta probabilità le due parole più abusate e fraintese del mondo contemporaneo. Attengono l’una alla vita collettiva, l’altra alla vita individuale. Tutti ne parlano, nessuno le ha. La loro coniugazione suggerisce un affratellamento fra universale e particolare che tuttavia sconta un problema di fondo: abbiamo i numeri per la consistenza di una democrazia? Qui il punto non è quale e quanto pubblico frequenta un festival ma se esso, nella sua struttura odierna, è ancora in grado di entrare in relazione con il tessuto urbano. Ciò che oggi chiamiamo teatro di ricerca, d’autore, sperimentale, è una festa di paese o un compleanno di famiglia? Possiamo chiamare felicità il crescente (e non così fiorente) isolazionismo? Non abbiamo più piazze per mostrare la vastità di ciò che si produce, abbiamo scelto il piccolo antro buio in cui accade – ci siamo detti fra di noi – la meraviglia invisibile oltre i confini dello spazio, del corpo, della rappresentazione. L’abbiamo detto, poi l’abbiamo anche ascoltato. Ci siamo trovati in perfetto accordo con noi stessi. Anche queste parole faranno giro breve, che sia accordo o disaccordo.
In questo festival al primo giorno è breve il teatro, come tradurrà la ragazza, breve la cronaca. All’apertura pomeridiana (un po’ troppo presto, alle 17) dedicata sapientemente a un focus sulle attuali possibilità (o no) di produzione, a cura di Graziano Graziani, hanno fatto seguito gli spettacoli: il Pinocchio di Babilonia Teatri e la caduta nel temporaneo oblio del coma, senza una rete che riconsegni intatti; Julie Nioche ha danzato con i pesi a piombo Nos solitudes (che fa parte del progetto Finestate Festival), ha fatto dialogare con la loro promessa caduta la levità del suo corpo nell’aria e la strenua gravità del suo tendere alla terra; El canto de la cabra ha appeso ai fili forbici e ghirlande, per il tempo infinito del suo Tierra pisada, por donde se anda, camino, portando in teatro qualcosa di maggiore vocazione installativa che in un luogo di passaggio avrebbe forse meglio indirizzato la percezione. Poi è stato il concerto Tuono di Dewey Dell con Black Fanfare, non visto. Insomma una lunga caduta e lunga la resistenza al peso dei gravi, che a terra ci spinge.
Eppure breve è la cronaca, ma tanta ce ne sarà prossimi giorni. Breve perché ora ci interessa puntare il fuoco su un aspetto che, a inizio stagione, pone più di una riflessione. Sia chiaro, non è questo un processo ad un festival che si avvia, che si spera manifesti presto la forza della virtù comunitaria e che di presenza e sguardo avrà bisogno fino alla sua conclusione, e anche dopo, ma siano queste parole una domanda d’occasione, siano compagne alla promessa felicità che la democrazia, come la conosciamo oggi, per il consumo interno o da esportazione, sta di fatto tradendo. Se la felicità è la tensione degli uomini ad affermare il proprio stato migliore con sé stessi e in relazione al mondo, non è forse il vestito buono della necessità? Non è ad essa che l’intima aspirazione fa riferimento? Non è che ci stiamo abituando a un’unica via possibile che, a larghe intese, chiamiamo plebiscito? Non è parlando di democrazia, oggi, che teniamo nascosto l’impero sotterraneo della dittatura?
Simone Nebbia
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