Il tempo materiale. È quello che manca, di solito, nelle nostre conversazioni quando si vuole dire che i mille impegni cui la vita quotidiana ci chiama hanno uno spazio troppo sottile che li separi. Il nuovo Short Theatre 8, che si sta svolgendo alla Pelanda di Testaccio a Roma in questi giorni, si caratterizza proprio per i suoi tanti spettacoli e per le poche pause di riflessione, fra l’uno e l’altro, cui invece il teatro avrebbe tutta la necessità di tendere, per non diventare mercanzia. C’è una sostanziale differenza che separa un festival da una rassegna: il primo è un atto di presenza che articola secondo una visione, politica in ogni caso, il dialogo con la realtà con cui si relaziona, la seconda non ha bisogno di unità di pensiero e mira esclusivamente a mostrare i buoni (o meno buoni) prodotti spettacolari cui si intende dare risalto. Il festival Short Theatre, seguendo quest’anno una deriva che giunge fin dalle ultime stagioni, sta via via passando dal primo alla seconda. Senza passare dal via. Tanti gli spettacoli, dunque, a dire il vero anche e soprattutto per raccogliere sempre di più quel difetto di sistema che non permette a compagnie ormai affermate il passaggio nelle stagioni teatrali, relegando i loro lavori all’aggettivo di “festivalieri”, teatranti come bagnini, camerieri, maestri di sci: stagionali, oltre ogni intenzione culturale.
Abbiamo allora visto, tra gli italiani (tralasciando per seguire il ragionamento l’estemporaneità sistematica di presenze straniere), il debutto romano della Lolita di Babilonia Teatri (che aveva già presentato Pinocchio reduce da “ben” altre due repliche nella stagione Palladium), quello di Marta Cuscunà con il gradevolissimo La semplicità ingannata, il ritorno del Lenz che mancava da molto tempo da queste parti. Segue, infine, l’occasione per vedere In società. Divertimento, prima assoluta firmata Federica Santoro/Fattore K e un altra novità a Roma: To play or to die. This is the question…today, di Babel/Giuseppe Provinzano.
«Comportamenti. Trialogo. Una storia. Tutti rincorrono tutti». Queste parole sono le prime che s’incontrano nella pur breve introduzione allo spettacolo di Federica Santoro, che aveva già mostrato i suoi primi passi durante il progetto Perdutamente lo scorso dicembre al Teatro India (cantiere teatrale del tempo in cui il teatro stesso stava per diventare un cantiere, ma delle cui proiezioni di riapertura poco sappiamo) e che ora si appresta al debutto.
La sua scena si dipana secondo un’idea dilatata dello spazio, i cui elementi sono disposti in un apparente stato di caos: sedie di diversa foggia se ne stanno rivolte a caso verso l’una o l’altra parete, una panca nel mezzo lega visivamente le sezioni occupate da due strumenti musicali, il trombone che sarà di Sebi Tramontano in vestaglia da camera (denominato Il Fratello) e il violoncello di Luca Tilli (Lui), in abiti casual; un divanetto accoglie invece La Sorella, Federica Santoro, in sciatto nero vedovile di fianco a un ammasso di parrucche scarmigliate e una ciotola da cane in cui verrà versata dell’acqua, nel mezzo di panni che saranno strappati e ridotti a stracci. Un “trialogo” muto, non silenzioso, che sarebbe una scelta cosciente, ma incapace di parlare e definire le relazioni fra i tre fratelli, muto perché animato da una sordità imperforabile che tuttavia, dopo tanto logorio, si dichiara ora conclusa. Dunque le parole, tante e quasi tutte della Sorella, dialogano col mutismo degli altri fino a trasformare l’eloquio in un soliloquio, fatto di una scrittura per frammenti e considerazioni meditabonde, di divagazioni estemporanee e pensieri sul mondo, sulla vita, ma peccando nel confronto proprio con il mondo, con la vita: una storia, è definito in origine questo spettacolo, eppure qui di storia non c’è traccia e la proposta drammaturgica sembra comporsi di tanti “a parte” che pure non possono sostenere un elaborato concreto, finendo per “tradire” e disperdere l’ascolto dello spettatore con una regia jazzata (da qui il “divertimento” del titolo) in un tempo troppo oltre gli estremi della partitura.
Pregevole è il coraggio di non affidarsi a una recitazione ammiccante ma quasi divagante, distratta, alla ricerca di un riscontro attraverso una stimolazione espressiva rugosa, priva di edulcorazione, ma troppo esile è la proposta perché sia sostenibile l’intenzione che, molto presto, finisce travolta dall’impero della casualità.
L’intenzione di Giuseppe Provinzano invece – autore di questo To play or to die presentato col nome di compagnia Babel (nata nel 2011 dalle ceneri della precedente suttascupa) e co-prodotto con il CSS di Udine – è legata inscindibilmente all’Amleto. Lo spettacolo – passo a due con Chiara Muscato – è composto fin dal prologo da una scrittura di commento al testo shakespeariano, con alle spalle le rovine di una scena divelta o viceversa in attesa di rendersi vitale, di farsi cioè teatro. Il prologo è allora una dichiarazione effettiva non solo dei contenuti – appunto, l’Amleto – ma anche della forma con cui saranno presentati, continuamente inframezzato da interventi di critica sistematica sull’attualità politica, sullo stato del teatro, dei teatranti replicanti erranti occupanti, sul sistema tutto che è marcio almeno quanto la Danimarca: «sappiamo più di Amleto che di quello che sta avvenendo nel nostro paese», recita Provinzano che sfoggia una barba da imam o da Re Claudio, se vogliamo entrare nell’opera dalla porta della rappresentazione, così come Ofelia porta il suo velo virginale e Laerte i paramenti guerreschi. Se tuttavia il proposito iniziale ha buoni elementi per una possibile personale ri-lettura, proprio da questa personificazione nascono i dubbi: Amleto, che vive assente dalla scena ma permeando tutti i personaggi come entità esterna della vicenda e intima invece dell’opera, resta in questo progetto come ingabbiato nella sua idea letteraria, non sa trasformarsi nell’idealità che lo rappresenta senza il bisogno della rappresentazione e gli stessi elementi d’attualità scelti a dialogare con la storia del principe, in virtù della loro deperibilità demagogica, sono paradossalmente quelli che vietano di salvaguardare e quindi riportate intatta l’universalità di quest’opera, ossia ciò che la rende in ogni caso contemporanea.
Se dunque Provinzano aveva colpito per il suo GIOtto – studio per una tragedia (2008) sui noti e sanguinosi fatti di Genova 2001, in questo caso (non visto interamente ma ho fede che non cambi in merito la sostanza del ragionamento) ciò che sembra mancare è una simile carica di necessità verso un classico da far proprio, da portare sulle spalle non come un bagaglio che contenga tutti gli strumenti del teatrante, ma come innegabile parte di sé.
Simone Nebbia
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IN SOCIETÀ
Divertimento
scritto e diretto da Federica Santoro
in collaborazione con Luca Tilli (violoncello) e Sebi Tramontana (trombone)
prodotto da Fattore K
La Sorella – Federica Santoro
Il Fratello – Sebi Tramontana
Lui – Luca Tilli
TO PLAY OR TO DIE
This is the question … today
scritto e diretto da Giuseppe Provinzano
con Chiara Muscato e Giuseppe Provinzano
sound&light designer Gabriele Gugliara
chitarre elettriche Roberto Cammarata
scene e costumi Vito Bartucca
realizzazione burattini e marionette Elena Bosco
workshop burattini e marionette Vito Bartucca
voce off Andrea Capaldi
un ringraziamento a Heiner Müller Geselschaft of Berlin Franco Quadri Compagnia InBalìa Phoebe Zeitgeist Compagnia Quartiatri Valentina Greco Petra Trombini Alessandro Riva
una co-produzione Babel crew, CSS Teatro stabile di innovazione del FVG
in collaborazione con Teatro Garibaldi Aperto di Palermo
Ho molto rispetto per la critica, fa parte del nostro mestiere leggerne e accettarne serenamente, ho sempre cercato di avere un rapporto schietto, dialettico e ambivalentemente costruttivo, tendo sempre verso un confronto sincero e senza giochi di ruolo\potere, sono un grande sostenitore del proliferare di siti di approfondimento critico soprattutto se ben strutturati come questo che stimo e seguo quotidianamente, immagino inoltre anche che non debba essere semplice operare di questi tempi … ma mi trovo nella necessaria condizione di esprimere il rammarico e l’amarezza di tutta Babel nel leggere quest’articolo ritenendone inopportuna la stessa stesura laddove, come dichiara onestamente ( bel gesto seguito a un confronto diretto col sottoscritto) lo stesso autore, non aver visto lo spettacolo per intero è a nostro avviso mancanza non da poco.
Non voglio star qui a sindacare il merito di questa recensione scritta con cura e dovizia ma riteniamo che sarebbe stato più rispettoso, nei confronti di chi sta in scena, di chi dietro le quinte e soprattutto di chi legge, guardare lo spettacolo per intero e porre le proprie riflessioni (magari le medesime ma approntate con “soggettività oggettiva” e non attraverso “la fede”) sulla totalità del lavoro. O non scriverne per niente. Perchè, diciamolo senza troppo girarci attorno, l’autore (andato via a fine primo tempo e perdendosi dunque 40 dei 95min) non sa come si evolve lo spettacolo, non conosce la parabola vissuta dai nostri personaggi, come è stato curato l’allestimento, se ci sono o meno colpi di scena o chissà quali scelte e\o passaggi drammaturgici che ne determinino una qualsiasi evoluzione e non sa altresì come finisce lo spettacolo, con quale urgenza e\o sintesi ecc ecc
Che non lo abbia convinto l’operazione mi pare lapalissiano dal momento in cui ha preferito uscire, così come è risaputo che sia un attento osservatore dei fatti teatrali (non sarà questo mio commento a mettere in discussione tale certezza) ma attenzione la mia stima nei confronti di Simone è pressoché intatta ma, infine, avremmo preferito semplicemente che restasse fino alla fine … e non desse il resto per scontato … ho certezza ( e non “fede”) che avrebbe potuto offrire un approfondimento più adeguato a raccontare il lavoro che comunque sostanzialmente pare non gli sia piaciuto!
grazie e buon lavoro
con stima e affetto
Giuseppe Provinzano e Babel crew
ps. permettetemi di indicarvi, cari lettori, lo sguardo di chi lo spettacolo lo ha visto per intero: http://www.linkiesta.it/blogs/l-onesto-jago/teatro-una-questione-di-vita-o-di-morte .
Caro Giuseppe e attraverso di te la compagnia,
ci siamo anche confrontati nei giorni appena dopo lo spettacolo, non ho mancato di alzare il telefono per risponderti o richiamarti e parlare a voce dello spettacolo appena concluso. Non mi sono sottratto a niente e pure ho speso parte del mio tempo ad ascoltare ragioni e proposte di reazione più o meno sensate. Ho ricevuto da te una richiesta di specificare quanto non ho avuto difficoltà ad ammettere, cioè che non avevo completato la visione dello spettacolo. Eccomi ora a rispondere nuovamente del misfatto, rintracciando quel rammarico e quell’amarezza che provi, tu e gli altri.
Ammetto nuovamente che non ho visto lo spettacolo per intero ma soltanto 55 o 60 non so dei 95 minuti in questione. In un festival di molti spettacoli per sera questo può accadere, ma certo avrei fatto meglio a vederlo interamente. Tuttavia ho deciso di scriverne ugualmente perché avevo annotazioni di carattere generale su ciò che ho visto e ho cercato di fare un appunto sull’intenzione, sull’estetica che ne nasce, sui sentimenti che il tuo spettacolo aveva fino a quel momento innescato. Di questi ho fatto critica, anche prendendomi dei rischi di risposte come questa che non potevo non prevedere come facilmente immagini. Ma non ho per esempio detto: “in quel momento è uscita mezza sala domandatevi voi perché dopo un’ora non hanno deciso di rimanere”, questo sarebbe stato scorretto e poco probante per entrambi, era un litigio che lasciamo alle comunicazioni social. Ho invece cercato di fornire comunque uno sguardo che ti facesse specchio deformato, che ti facesse scontrare con una visione contrastante il tuo intento, nonostante non abbia saputo sostenere una visione completa. Certo, sicuramente anche per l’ora tarda che ascriviamo a un difetto dell’organizzazione. Ma non solo. Non ho annotato mancati colpi di scena che infatti non potevo ravvisare, ma ciò che mi interessa in scena non è il colpo ad effetto, non intendo questo mestiere con il solo resoconto fedele dell’evoluzione spettacolare ma come attraversamento delle ragioni che spingono alla scena, che spingono un artista come te a battere una strada a mio avviso già battuta, forse svolta e non pienamente nelle tue corde che invece mi sembra tendano ad altro e in altro riescano meglio. Tutto qui.
Porgo dunque le mie scuse se ho urtato la vostra sensibilità, ma non recedo qualora mi ricapitasse di nuovo di sentire la necessità di uscire dalla platea dopo un’ora di uno spettacolo (avessi detto pochi minuti ok…ma un’ora mi pare abbastanza) e lo stesso annotare un sentimento che possa svolgere ugualmente il mio mestiere.
Con immutata stima
Simone