Interno casa borghese, ovvero in nessun luogo. Così potrebbe cominciare il racconto di questa nuova versione di Ubu Roi, testo di Alfred Jarry che illustra i meccanismi del potere posto dal 1896 a fulcro del cambio di secolo e che due maestri del teatro internazionale come Declan Donnellan e Nick Ormerod – fondatori nel 1981 della storica compagnia Cheek by Jowl, letteralmente “gomito a gomito” – al debutto italiano per la 42ª Biennale Teatro di Venezia hanno deciso di spostare da un “nessun luogo” di nome Polonia (ma che potrebbe chiamarsi in qualsiasi modo, alla maniera della Danimarca shakespeariana) a un salotto parigino dell’alta società.
Nessun luogo – ma, dunque, per analogia delle differenze ogni luogo del mondo – in cui si pongono in mostra quadri immaginari di una realtà prevaricante e bieca, ma proprio per tale travisamento surrealista inclini a una fedeltà più intima e duratura, universale.
Nessuno – ma, come abbiamo capito: tutti – attende gli ospiti che stanno per arrivare e mescolare di risatine e futili commenti una serata fra le altre, già vissuta, già digerita da mille altre precedenti; si dispongono i preparativi, si fa attenzione al dettaglio più insignificante, si dedica alla cucina e alla sua presentazione sulla tavola perfettamente disposta buona parte del tempo: si fa cioè società in quella che è già la società, si pone di sé stessi niente più che l’apparenza a misurarsi nella relazione, si tende a replicare la virtualità, attestarla nelle affettazioni dei rapporti umani.
Nulla – lo sappiamo: tutto – accade di più che una tranquilla cenetta fra amici in cui il dialogo avrà la stessa inconsistenza dei cibi offerti, in cui si metterà in mostra la propria conoscenza di argomenti gustosi senza badare all’ascolto degli altri e si farà mercanzia del proprio bagaglio di frivolezza.
Ma cosa accade davvero, nell’intimo e recondito substrato umano?
Cova sotterranea la reiterata, violenta affermazione di supremazia.
Nell’apparente stato di quiete, fin dall’inizio appare una presenza inquieta che sembra estranea, un ragazzo disinteressato allo svolgimento della cena che se ne sta disfatto sul divano, all’altro capo della scena, oppure si aggira con una telecamera anche dietro le quinte durante il lungo prologo, proiettando alle loro spalle sulla parete casalinga le figure ingigantite, quasi fossero deformate. In lui si intuisce fin da subito che l’effetto di straniamento presto coglierà tutti, gli ospiti e i convitati, nella luce verde inacidita che sposta i protagonisti su un altro piano, in loro esplodono altri personaggi – quelli di Jarry – che si prendono la scena e l’interno borghese a intermittenza diventa campo di un’aspra battaglia per il controllo territoriale che Padre e Madre Ubu usurperanno a Re Venceslao: ognuno diventa la propria ossessione, si trasforma nella propria aberrazione.
Sotto la luce della «candela verde» simbolica già nel testo, un’atmosfera lugubre e cupa si prende l’apparenza dei grandi interni laccati beige di Ormerod e li deforma, rendendo tutto il carattere comico generato dalle due situazioni a confronto: si prepara una guerra immaginaria e nel fondo musicale si riconoscono echi da film d’azione, poco prima che l’azione sia. In questo contesto si inserisce l’uso fedele dell’unica lingua possibile, quella francese d’origine del testo e lingua madre dei sei attori coinvolti (Xavier Boiffer, Camille Cayol, Vincent de Bouard, Christophe Grégoire, Cécile Leterme, Sylvain Levitte), ma soprattutto lingua perfetta per dipingere una situazione di simile travisamento, con frasi che hanno soverchiato il “francesismo” e sono divenute internazionali – esemplare il finto stupore dell’espressione “oh là là” che è ormai di tutti i salotti, anche non francesi.
Eppure, qualcosa non convince mai a fondo. Del sentimento sinistro e alienato nei sotterranei della borghesia occidentale, almeno in Italia sappiamo soprattutto dal cinema e fin da Buñuel, Visconti, Antonioni, dal Pasolini di Teorema al Fellini a colori. Donnellan trascina davanti agli occhi, indagando gli interstizi di un contesto reale perché vi esploda il surreale, una situazione nota a noi contemporanea nella cui apparenza scavare per ravvisarvi la guerra egemonica dell’Ubu Roi. Ma questo non basta, perché escludendo tale edificio e la felicità di momenti più coerenti (di pregio è soprattutto l’interpretazione e certi virtuosismi registici), non pare esserci molto di più ad aggiungere piani di lettura e la buona intenzione iniziale non si sviluppa appieno: rimane un gioco, meraviglioso e ben dosato, sapiente, ma a ben vedere non sempre giustificato nell’impianto drammaturgico che accoglie oggetti secondo un processo di spostamento semantico che in contesti non così celebrati – si pensi, ad esempio, ai Sacchi di Sabbia di Giovanni Guerrieri – ha decisamente maggiore coscienza.
Ma nel meccanismo concettuale di tali adattamenti è molto chiaro un proposito: esso è virtuale per vocazione al vero, esatto contrario del potere in un’epoca come la nostra, fortemente impostata sul realismo, per sottile e bieca volontà destabilizzante. In questo sappiamo una volta di più quanto ci sia, nell’Ubu Roi, un carattere purtroppo senza tempo. O, almeno, molto vicino a questo.
Simone Nebbia
Visto alla Biennale Teatro 2013 in agosto
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UBU ROI (100’) prima italiana
Cheek by Jowl
di Alfred Jarry
regia Declan Donnellan
con Xavier Boiffier, Camille Cayol, Vincent de Bouard, Christophe Grégoire, Cécile Leterme, Sylvain Levitte
scene Nick Ormerod
assistente alla regia Michelangelo Marchese, Bertrand Lesca
luci Pascal Noël
musica originale Davy Sladek
costumi Angie Burns
movimenti Jane Gibson
voce Valérie Bezançon
video Benoit Simon, Quentin Vigier