C’era molta curiosità in questi anni, da quando Àlex Rigola ha avuto l’incarico di dirigere la Biennale Teatro ormai nel 2010, subito dopo il ciclo quadriennale curato da Maurizio Scaparro. Il suo arrivo in Italia non era stato accolto da grandi clamori, ma da un sotterraneo desiderio di scoprire alla prova questo regista catalano molto poco visto nel nostro territorio e che pure all’estero ha ricevuto molti premi e riconoscimenti. La sua giovane età, rispondente anche alla precoce carriera che l’ha visto debuttare alla regia a 27 anni con un testo di Heiner Müller, ha subito rappresentato un cambio di rotta decisivo per un rinnovamento strutturale, che ha iniziato a spostare la Biennale di Venezia, già storicamente orientata alla dimensione formativa, verso il progetto Biennale College, ormai consolidato proprio a partire dalla sua nomina. Con grande senso del proprio operato, c’è da dire, Rigola ha evitato di presentare propri spettacoli nel biennio precedente, riservando soltanto a quest’anno che apre il suo secondo mandato l’opportunità di far vedere El policía de las ratas, testo del formidabile scrittore dadaista cileno – oggi tornato di gran moda – Roberto Bolaño. Così che la curiosità, finalmente, ha potuto trovare un po’ di pace.
Non nuovo a testi di carattere surrealista (sua la regia nel 2008 di El buñuelo de Hamlet scritto nel 1927 da Luis Buñuel per attori non professionisti e rappresentato una sola volta in un bistrot di Montparnasse), in realtà quello di Rigola verso lo stravagante autore scomparso dieci anni fa è un ritorno: dopo aver messo in scena il suo romanzo incompiuto 2666 (nel 2007), questa volta si dedica a un racconto contenuto nella raccolta Il gaucho insostenibile, pubblicata postuma (in Italia da Sellerio nel 2006) con l’inquietante ma esplicativa epigrafe da Kafka: «Può darsi che non ne sentiremo troppo la mancanza». A cominciare dalla citazione esplicita del personaggio principale di Josephine la cantante e il popolo dei topi, gli elementi kafkiani sono allora il motivo di fondo che percorre l’intero racconto, ambientato nella fogna di una città non identificata, là dove il poliziotto dei topi Pepe el Tira dovrà scontrarsi con la degenerazione della sua specie mai bellicosa e che ora invece sembra aver scoperto una falla, un foro in cui il male sta dilagando e contagiando l’evoluzione fin lì lineare, non ancora minata da simili infiltrazioni. Ma è possibile che questo accada? Si può salvaguardare una specie vocata al bene dal contagio del male, suo speculare opposto? Se Eraclito poneva la sua famosa teoria (auspicata da Jung per i percorsi della psiche) all’interno del divenire, per uno sguardo surrealista lo stesso divenire può ammettersi come suo contrario, tradito e trasformato al punto da perdere la distanza dei segni positivo e negativo. E allora, forse, si può. Posto che si ammetta tale posizione unicamente speculativa.
In un ambiente spoglio, di certo non ordinato per uno spettacolo di esplosione visuale, due attori rimestano parole di un racconto in prima persona, componendo un monologo a due in fronte alla platea, seduti su impiegatizie sedie da scrivania e dotati di un microfono meramente amplificatorio. Joan Carreras è Pepe, dispiega il suo racconto in una modalità molto misurata al fine di contenere l’impianto allegorico in una concretezza inappuntabile, si rivolge a un ascoltatore ipotetico e fa dialogare il proprio monologo con gli interventi di Andreu Benito, cui spetta un compito di contraltare nell’interpretazione di tutti gli altri personaggi con cui Pepe si relaziona.
C’è un duplice delitto nel sottomondo, che tuttavia per un topo è il mondo stesso. Sulla scena appare un topo morto gigante (ma l’altra vittima è uno neonato) prima coperto da un grande telo di carta argentata, mentre all’altro capo del palco una sacca di sangue vuota per metà inizia a far colare ciò che ne rimane, dilagando una pozza che pian piano di quel rosso ematico tinge la storia. A Pepe spetta l’indagine, aggravata dalla sorpresa di scoprire per la prima volta che le ferite sul corpo paiono inferte da un proprio simile. Inizierà un viaggio nelle fogne morte, ossia il sotto-sottomondo, in cui rintracciare chi è colpevole di tale efferato crimine, fino a rendersi conto dell’inarrestabile deriva.
L’impianto scenico di Rigola è al servizio della scrittura di Bolaño, anche quando essa si parte dalle atmosfere gialliste a tratti velate di ironia e si fa densa, poetica, grazie alla delicatezza della musica. La struttura della regia poggia sui sicuri attori buona parte delle soluzioni, riservando per sé un intervento creativo in tono minore fatto di pochissime immagini. Questo, se da un lato permette di apprezzare un testo rilevante, dall’altro lo priva di un controcanto dinamico che produca contrasto, lasciando pressoché assente dalla scena un elemento invece ad essa imprescindibile come il corpo. Qui sembra incagliarsi il suo spettacolo: c’è un corpo ingombrante, quello di un topo in cui è sublimato il delitto contro l’intera umanità, ma il corpo in scena è invece annientato per sottrazione, scompare nella storia che quindi si rivela esteriore, paradossalmente non se ne avverte apparizione neppure quando i due attori, di colpo coinvolti in un effetto teatrale, aprono letteralmente le porte per uscire di scena.
Simone Nebbia
Visto alla Biennale Teatro 2013 in agosto
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EL POLICÍA DE LAS RATAS (55’)
prima assoluta
di Roberto Bolaño
adattamento e regia Àlex Rigola
con Andreu Benito, Joan Carreras
assistente alla regia Jordi Puig “Kai”
scene Max Glaenzel, Raquel Bonillo
luci August Viladomat
costumi Berta Riera
produzione HEARTBREAK HOTEL, Teatre Lliure
in coproduzione con Teatro de La Abadía
in collaborazione con la Biennale di Venezia