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Dalla Silvio D’Amico la prova di Antonelli con Spregelburd

La cocciutaggine - foto di Ufficio Stampa
La cocciutaggine – foto di Ufficio Stampa

Ciò che a volte sembra solo la punta di un iceberg, a volte è in grado di manifestare il processo di evoluzione sottostante, a rendere visibile una materia cui corrisponde altrettanta materia. Allo stesso modo accade che uno spettacolo esemplare – nelle intenzioni – di un lungo percorso di formazione, pur nella sua circostanzialità possa ricondurre a quel mondo sommerso da cui far emergere tanto il sapere acquisito quanto l’estro coltivato. Se ciò è facilmente visibile, rimane tuttavia da capire quali siano gli equilibri tra la citazione funzionale e la comodità della strada già conosciuta e, prima di tutto, quanto sia possibile affrancarsi dal marchio profondo impresso da un’istituzione come l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica “Silvio d’Amico”.

Il buon esercizio di Dante Antonelli – l’allievo regista di cui abbiamo visto il lavoro finale presentato al Teatro Duse di Roma– si confronta con uno dei maggiori drammaturghi contemporanei, l’argentino Rafael Spregelburd, portando in scena, alternati in serate diverse, il secondo e il terzo atto de La cocciutaggine. Appartenente a sua volta a una raccolta più ampia ispirata ai sette peccati capitali (Eptalogia di Hieronymus Bosch), il testo accoglie l’ulteriore frammentazione non con spaesamento ma restituendo una maggior attenzione tanto a chi esplora quanto a chi osserva, anche grazie a una struttura che ripercorre la stessa situazione sotto angolature, luoghi e punti di vista differenti.

Sebbene le coordinate storiche siano quelle della Spagna del ’39, guerra civile e regime fascista sono poco più che echi lontani nella casa dell’Ufficiale Jaume Planc. Il secondo atto si svolge tutto nella camera della figlia più piccola, Alfonsa, personaggio ossessionato da un ricordo traumatico le cui le visioni avrebbero permesso all’Ufficiale la creazione di un macchinario in grado di elaborare un linguaggio universale, summa onnicomprensiva di tutte le possibili lingue. Nonostante la nobile aspirazione, l’Ufficiale nasconde in casa una lista piena di nomi di dissidenti, inseguita da un miliziano inglese che di questi tenta di evitare il massacro. Il motore drammaturgico marcia attraverso ambiguità e inganno, tale per cui a ogni azione corrisponde un pensiero opposto e ferocemente inaspettato, se è vero che il miliziano corrompe imbrogliando più personaggi, o se alla base del famigerato congegno non si nasconde un impianto scientifico ma le visioni di Alfonsa auto-indotte soltanto nel desiderio di rivedere il prete di cui sembra infatuata e che di lei si approfitta.

Pur non distaccandosi del tutto da certi stilemi riconosciuti, l’idea di direzione è chiara e si evince anche dalla modalità interpretativa dei personaggi; tutti molto marcati quasi ai limiti del grottesco, tanto nei corpi (un esempio fra tutti è la figlia delirante, quasi un’indemoniata da cinema horror) quanto nelle modalità di linguaggio, straniante sotto vari punti di vista. Dal personaggio che interpreta contemporaneamente più voci tanto da confondere la propria identità, all’italiano zoppicante del miliziano inglese o del traduttore russo interessato al macchinario, l’abilità attoriale finisce per non aggiungere molto. E tuttavia, per una circolarità quasi paradossale in cui l’estremo finisce per convergere con il suo opposto, l’esagerazione diventa man mano credibile, il grottesco si fa quasi quotidiano. Sono pochi – ma ci sono – i momenti in cui la messinscena, appesantendosi di dialoghi troppo verbosi, perde quella leggerezza propria soprattutto della parte iniziale.

Ciò nonostante concretezza e immaginazione vengono fuori da questo adattamento in cui lo spazio del racconto diventa luogo reale e la cui definizione avviene grazie alla tessitura di tutti gli elementi che costituiscono lo spettacolo. Tolto un unico pannello bianco – tenda reale e metaforica da cui sbirciare o da cui esser osservati – posto centralmente a fondo palco, la scena è spoglia: i limiti spaziali sono definiti come in un negativo fotografico, per assenza, le stanze soggiacciono ai quadrati di luce, le dimensioni rimbalzano i suoni creati dagli attori, gran parte della creazione è affidata alla parola. Del resto il discorso sul linguaggio, con la speranza e l’inganno del suo potere unificante (e quindi ordinatore), diventa protagonista ideale della seconda parte dello spettacolo, che nettamente meno controllata ed equilibrata della prima.

Viviana Raciti

Visto al Teatro Studio Eleonora Duse, Roma – luglio 2013

LA COCCIUTAGGINE

di Rafael Spregelburd
con: Vittoria Faro, Michele Lisi, Carlotta Mangione, Alessandro Marmorini, Dante Antonelli
drammaturgia per la scena: Matilde D’Accardi e Federico Perrone
musiche: Francesco Leincri
designer luci e scene: Giulio Bartolozzi
regia: Dante Antonelli

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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