In questi anni di deserto ma anche di oasi, in cui all’effettiva emergenza di questo paese il teatro (che ci crediamo o no) ha saputo rispondere con reazioni significative e in certi casi rivoluzionarie più che in molti altri ambiti della cultura, certi ragionamenti stanno tornando all’attenzione come elementi fondanti. Oltre e forse prima di linguaggi, tematiche e ingranaggi produttivi c’è la questione dei ruoli assunti dalle parti in campo e della loro efficacia, per la quale troppo spesso sembrano esistere delle ricette pronte. Un ennesimo discorso sul ruolo della critica potrebbe servire solo a patto che non si limitasse a porre avanti le mani della crisi di questa figura professionale o a lamentarsi della perdita di un’influenza, prendendo invece di petto la responsabilità di allargare il discorso anche agli altri pezzi sulla scacchiera. In diverse occasioni, nei commenti a margine di questi e altri articoli, in conversazioni private o, soprattutto nei mesi recenti, su qualche bacheca Twitter (tutte situazioni, almeno quelle telematiche, in cui si corre a nascondersi dietro nickname più o meno sagaci), la critica è stata oggetto di osservazioni anche ruvide sulla sua funzione, sulla sua inutilità o addirittura sul suo potenziale di danno. E allora guerra tra poveri sia.
Riflettendo sulla funzione di queste pagine nell’ecologia del sistema teatrale contemporaneo, vogliamo provare a rispondere a quanti ancora nel teatro misurano la convivenza di urgenze e di linguaggi con le logiche di una guerra tra bande e tentano di proteggere una categoria, una qualsiasi, fosse anche quella apparentemente neutra del “pubblico popolare”. Prendendo in mano anche i dati raccolti da questa attenta analisi sul posizionamento dell’informazione teatrale tra carta stampata e web, se da un lato è vero che certo teatro meglio inserito nei grandi circuiti non ha bisogno di chissà quale profusione di materiali critici e informativi che lo introducano, è però un errore immaginare che un’informazione offerta su quel teatro abbia come unico effetto quello di soffocare la visibilità della scena indipendente: soprattutto quando l’informazione è accompagnata da un ragionamento, serve invece a dare un’idea di quale teatro (nel bene e nel male) il pubblico possa rischiare o aspirare a trovarsi davanti.
In un tagliente articolo apparso il 15 luglio su BoBlog/Corriere della Sera di Bologna, Massimo Marino parlava del «fantasma della partecipazione (fasulla?)» che «si aggira per il mondo». In questo senso deriva dalla stessa tendenza quella trappola – innescata dai social network e ormai diffusa – che fa scambiare la “condivisione” virtuale per reale partecipazione all’esperienza, che in altre parole conferisce al “like” lo stesso valore del “commento” e al commento lo stesso dell’approfondimento. Il ruolo di chi partecipa – qui sì – di questo ambiente occupandosi di raccontarlo non è soltanto quello di tendere una mano verso l’interpretazione, ma di fungere da termometro dell’atmosfera generale. Anche quei molti artisti indipendenti che lamentano quanto spesso l’attenzione della critica finisca su prodotti che non avrebbero bisogno di “pubblicità”, reclamando come il suo compito sia di dare voce alle realtà che non entrano nei circuiti, dovrebbero invece considerare che la concreta possibilità di riportarvi l’attenzione del pubblico sta innanzitutto nel disegnare un panorama il più possibile completo. In modo che quel ritorno a teatro sia spinto non da una selezione a priori ma da una scelta culturale attiva ed epidemica, da un’urgenza critica.
Tutti strumenti perfetti per distanziare i ghetti con barricate di fuoco, quando la necessità è invece di creare una compresenza dinamica e feconda in cui l’eterogeneità – con tutti i suoi vantaggi e le sue criticità – sia immediatamente visibile a tutti gli spettatori. Siano essi parte del comparto produttivo (termine volutamente di stampo ultrasocialista), o semplici individui che si affacciano a interpretare la realtà. È a loro che torna tutto. E se è così, togliamoci finalmente di torno ogni altro pronome che non sia “noi”. Niente “voi”, né “loro”. Spettatori lo siamo tutti. Perché chiunque faccia il teatro, da fuori o dentro, è allo stesso tempo lì a guardarlo, a circondarsene, a renderlo vivo. O a ucciderlo. Chi pretende di essere fuori da questa, che non è una categoria ma una comunità, sta semplicemente mentendo. O, peggio, si sta sottraendo a una responsabilità.
Sergio Lo Gatto
Secondo me nessuno di noi è spettatore… e il pezzo lo dice chiaramente nelle ipotesi, anche se arriva ad una tesi opposta.
Un pezzo che sancisce che non c’è pubblico, perché chi lo rende vivo? chi lo fa? chi lo vede?
sempre gli stessi…
perciò lo rendiamo morto…
Il gioco a dire “dare visibilità” a chi già ce l’ha è stupido, ma la necessità di andare a vedere chi non è visto è un’esigenza per il nostro mondo.
Iniziano ad avere dignità i 40/50enni (mettiamo da 35 anni in su così me ce ficco anche io)
tra 10/15 anni qualcuno di noi avrà acquisito così tanta “dignità” e il posto di stare in uno stabile o in un giro “che conta” quando saremo vecchi e avremo tra i 65 e i 50 anni!
E ci sarà un popolo di giovani che farà a gara per salire, ci sputerà dal basso e ci considererà tromboni e incapaci di dare spazio…
e i giovanissimi saranno solo sprovveduti.
E quello che lamentiamo ora, cioè poco spazio in alcune destinazioni e luoghi ala ricerca, sarà ripristinato con noi nella parte di chi (forse giustamente dal punto di vista di chi arriva) si tenterà di tenere la poltrona per 10 o 15 anni.
è il tempo che i produttori, i distributori, i direttori artistici e i critici
si confrontino e lavorino per i 20enni, i 25enni…
Caro Dario,
innanzitutto grazie di aver letto e commentato.
Ci tengo a sottolinearlo, forse avrei dovuto farlo anche nel pezzo la mia riflessione vuole avere un respiro nazionale, ma ovviamente si basa innanzitutto su Roma e su alcune delle sue logiche.
Il fatto che gli spettatori siano pochi e sempre gli stessi è quasi inequivocabile, come dici giustamente sono io il primo a registrarlo in questo articolo. Ma questo non toglie, e anzi sottolinea, che quei pochi spettatori sono gli stessi che poi scrivono su queste pagine o si inchinano su quel palco o si scolano qualche birra insieme in dopo-teatro. La comunità è questa. Non vuole rimanere stretta su di sé, e l’urgenza di espandersi la dimostra proprio tramite queste e altre discussioni. Nessuno di noi dovrebbe parlare, secondo me, del sistema in maniera astratta, del pubblico in maniera astratta, sono tutte cose che non solo ci riguardano, ma vengono da noi e dalla nostra presenza determinate.
La necessità di andare a vedere chi non è visto è un’esigenza, sono (siamo) d’accordissimo. E lo facciamo, lo ripeto per l’ennesima volta — proprio quell’ “ennesima” del titolo. Occorre però equilibrare quella presenza nei vari circuiti, cosa spesso non facile per carenza di risorse e per sinergie che mancano. L’intenzione c’è e proiettarla in senso strategico è la vera sfida.
Non sono molto d’accordo con la scansione anagrafica che fai, troppo tagliata con l’accetta. Quella delle categorie anagrafiche è solo *una* delle ruggini che attanagliano questo sistema. Il tuo quadro è davvero un po’ generalizzante e secondo me sposta il vero fuoco del discorso. Ma ne parleremo, sono certo.
grazie ancora