Quando il sociologo polacco Zygmunt Bauman ha teorizzato il senso di smarrimento e confusione dei termini che affligge la nostra società, forse non si aspettava che la stessa teoria diventasse complice delle sue conseguenze: la modernità liquida – in cui rapporti tra individui sono animati dalla disgregazione invece che dall’unione e in cui si attiva un processo di liquefazione tra uomini e contesti – corrisponde con particolare aderenza al disorientamento, al punto che lo stesso concetto è diventato esso stesso parodia di un concetto filosofico. Non c’è riunione o convegno o incontro salottiero che non abbia deprivato quell’intuizione di complessità, illanguidendone percezione ed espressione in poche battute di compendio, formulazione di brevi proclami in cui riconoscere non il concetto ma soltanto l’argomento di cui essi sono rappresentativi. Ecco che facilmente, dunque, la teoria di Bauman misurandosi con sé stessa dimostra la propria validità.
Ma se liquida e instabile è la modernità, l’urgenza più drammatica risiede nella previsione di ciò che rimarrà, ciò che sta diventando la nostra memoria futura, la storia da tramandare, e insieme nella riflessione sugli strumenti che serviranno a tale scopo, se cioè la banalizzazione abbia a che vedere con quegli strumenti perché li costruisce a immagine della “liquidità” o se invece questa ne è determinata ed estremizzata. Ecco allora che percepire e considerare la connettività telematica in relazione a settori speculativi porta a riflettere sul loro uso e sulla bontà del loro fine.
Quando si ragiona delle arti, pertanto, oggi si vive una difficoltà maggiorata dal farlo nell’epoca moderna. Se nel 1967 un gruppo di autori, registi, critici, attori e animatori a vario titolo dell’ambiente teatrale indipendente ha potuto sottoscrivere e mandare ai posteri il Manifesto di Ivrea Per un nuovo teatro (pubblicato su Sipario nel 1966 e ratificato nella cittadina industriale l’anno successivo), cosa potremmo noi produrre oggi per dibatterne i contenuti? Di tale peso si è fatto carico il festival Orizzonti Verticali di San Gimignano, alla prima edizione e diretto da Tuccio Guicciardini, che ha convocato un frammento disperso di comunità teatrale nazionale perché ne traesse risposte, affidando il compito di comporne un disegno a Carlo Infante, ex critico teatrale e animatore tout court del panorama culturale italiano. L’idea – anche nella sua attraente ma forse poco probabile maestosità – nasce dal desiderio di confrontare le diverse generazioni, da quella “di Ivrea” fino all’attuale, e vorrebbe concretizzarsi in una mappa cognitiva che raccolga parole chiave sull’argomento, ospitando frammenti esplicativi in grado di meglio dispiegare la riflessione: cliccando su ognuna delle parole chiave si aprirà una piccola schermata con voci di un nuovo vocabolario condiviso, integrabili tramite commento da chiunque abbia desiderio di fare proposte.
Negli incontri sotto la torre che sovrasta il Duomo della cittadina toscana, la dialettica del confronto ha vissuto momenti di tensione tra vecchio e nuovo (qui un pezzo esplicativo di Renzo Francabandera su PaneAcquaCulture), tra le generazioni che si sono misurate all’agone di parlare e presentarsi, conoscere e contemporaneamente misconoscere “l’altro”, colui che fa le mie stesse cose in altro modo e in altro tempo che il mio. Inevitabile la tensione, perché tanto, troppo diverso è il luogo dell’azione, il contesto storico e sociale in cui affermare la propria dignità espressiva: i firmatari di Ivrea si relazionavano con un mondo «ufficiale» che stava edificando le proprie categorie, stava formando la struttura entro cui riconoscere definizioni in grado di interpretare i macro-cambiamenti globali; vi era cioè per loro un edificio da abbattere, perché fosse garantita riconoscibilità all’opera alternativa, alla propria militanza che completava il mondo dei micro-cambiamenti. Chi si approcci oggi alle arti e alla discussione dei suoi termini, deve fare i conti con un contesto modificato che rigetta le categorizzazioni (per intenderci le orribili parole composte di prefissi e suffissi: pre, post, trans) e si pone in ascolto della fluidità, accettandola e cercando di farsene interprete, ma più di ogni altra cosa – diversamente dalla «apparente floridezza» di allora – vive una difficoltà economica vicina alla necrosi del sistema che li schiaccia di burocrazia e li priva di opportunità, che soprattutto li costringe a vietarsi questioni di poetica e ridursi a far sopravvivere non la propria arte, ma la propria associazione culturale.
Esemplare, per come in teatro si riconosca maggiore emergenza nell’impegno verso la politica piuttosto che la poetica, è il caso delle pur pochissime grandi riunioni nazionali: al silenzio seguito alla chiamata pubblica Per un’arte clandestina di Claudio Morganti, risponde il successo di esperienze come il Teatro Valle Occupato, simbolo della prima molto più che della seconda.
Impossibile un manifesto, dunque, può una mappa sostituirlo e farsi interprete di questa epoca? L’interattività che si propone di cavalcare e che sembra un po’ lo spirito dei tempi, se da un lato permette, o illude, di raggiungere un numero sconfinato di persone dall’altro rischia di innescare invece l’evasività della relazione, “diluita” in una forma di contatto priva di complessità, di consistenza contenutistica; ecco allora che di nuovo si affaccia quel pericolo di morire dell’antidoto già immanente nel meccanismo autogenerativo della modernità liquida: lasciarsi blandire da una socialità digitale animata da immediata reciprocità e velocità di fruizione, rivendicando la fluidità epocale in piccole “reclamizzazioni” di contenuti, non è cercare di ridurre a categoria l’impossibilità di categorizzare? E se le definizioni resistenti non hanno più un contesto per misurarsi, meglio abbandonarle alla loro opportuna storicizzazione o cercare di rintracciarle in un mondo che non le riconosce? La curiosità resta intatta e verificherà partecipando la proposta, ma una speranza viva a monito della dialettica generazionale: mai ci si chiuda a difendere territori, rivendicare primati di cose realizzate in tempi e modi diversissimi. Sarebbe stolto e deleterio. E aprirebbe al tempo di un neologismo aberrante, parola composta di decomposta passione: il tempo incerto, malato, della retroavanguardia.
Simone Nebbia
no, caro simone, non è “stolto e deleterio” rivendicare ciò che è stato fatto e pensato “in tempi e modi diversissimi”. E’ un modo preciso per individuare i punti ( e le definizioni) su cui cercare di tracciare un percorso delle culture teatrali e delle sperimentazioni di linguaggio che sia non solo storico ma generativo. La questione è nel come cercare di condividerlo questo percorso perchè possa rivelarsi generativo: utile ad un evoluzione culturale di un sistema teatrale che non sta riflettendo il mondo che cambia. Si sta tentando di avviare questa sorta di “enciclopedia ipertestuale di parole chiave” ( la tag cloud http://www.orizzontiverticali.net/web/mappa lanciata nell’ambito del cantiere di OrizzontiVerticali) come una piattaforma on line (uno dei modi migliori concepibili) che può trovare senso solo se s’investe del senso e della disponibiltà ad investire contenuti attraverso molteplici punti di vista. Sarebbe bello e giusto verificare se si riesce ad intraprendere questo percorso comune, connettivo più che collettivo, svincolato cioè dalle “appartenenze” (dettate dai vari legami che si ha con le varie “congregazioni” teatrali) .La mappa è pensata per delineare proprio questo percorso, individuando un po’ di quelle parole chiave che sono emerse nel brainstorming (solo in parte sviluppato a San Gimignano) che ha visto un confronto non solo tra generazioni ma tra autori e spettatori. Sono infatti convinto che le esperienze dell’avanguardia teatrale abbiano rappresentato uno dei motori dell’innovazione culturale di questo Paese e che questo processo riguardi più gli spettatori che gli autori. Come sai penso al teatro come palestra di cittadinanza e non solo come arte…E penso quindi che la mappa possa contribuire a dare forma alla “rete degli sguardi”, quella produzione di senso espressa da spettatori che vedono nel teatro (nella sua accezione più ampia, performativa) un principio attivo per creare una visione del mondo.
Simone
intanto grazie di aver dato forma estesa al tuo punto di vista. Devo dire che su molto sono d’accordo, ed è anche il motivo per cui mi sento in difficoltà a trovare spazio nella mappa verbale che Carlo Infante sta ponendo alla base del suo lavoro di reporting sugli incontri del festival.
Perchè è una mappa transeunte, liquida appunto, che secondo me nasce da un tentativo ancora non del tutto deduttivo.
La considerazione nasce dal fatto che le parole importanti per descrivere un’epoca o un gruppo di persone sono quelle che effettivamente nascono come condivise, che trovano un consenso anche maggiore di quello di un gruppo ristretto di cinque o dieci persone.
Perchè per non diventare ancora più elitario di quanto già il dissertare di arti sceniche non sia in Italia, occorre condividere, affannosamente cercare diffusione di conoscenza. Diretta.
Probabilmente alcune risposte, forse molte sono in rete.
Ma molte no.
Insomma anche la rete ha limiti, e questo affannoso giro di prosumers che stiamo diventando (voraci e instancabili generatori di contenuti e consumatori) rischia di fare di noi, specie poi di quelli sotto gli anta, una genia di criceti destinati a girare la ruota senza sosta.
Per cui bene la rete, bene il virtuale e il liquido, ma anche la concretezza della carne. L’incontro fisico. Guardare negli occhi.
E secondo me il rapporto umano che solo con il teatro si realizza, e i neuroni specchio, e tutte le altre cose che ultimamente arricchiscono i dibattiti nel nostro tempo, hanno bisogno di altro sostegno oltre quello della condivisione in rete di contenuti, mappe ecc. Il confronto di San Gimignano, per dire, mai sarebbe stato così fruttuoso di veemente reazione, se non fosse stato fisico, umano. Capace di attivare negazioni, muri, blocchi, divieti, piuttosto che dialoghi come quelli che era stato chiamato a generare.
E questo mi pare il tema paradossale che la tua analisi sottende e su cui tornerò a breve.
Mentre mi permetto di segnalare, a proposito del teorema del “chi è senza peccato” nel teatro la riflessione di Marat su PAC.
Insomma, secondo me sulle buone pratiche bisogna smettere di fare convegni e iniziare a farle veramente. E fare non liquidi proclami ideali o mappe che rischiano di non avere un nord e un sud, ma una sorta di decalogo concreto di cose che chi aderisce inizia a fare. Forse anche meno di 10. che a pensarci già 10 sono tantissime.
Già farne 3 bene, sarebbe cosa buona.
Qui occorre dire, ma moltissimo anche fare. E fare camminando dritti. Guardandosi di persona. Negli occhi. E capendo se ci stiamo rispettando fino in fondo.