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Still Life: resistere per la differenza secondo ricci/forte

foto Daniele + Virginia Antonelli
foto Daniele + Virginia Antonelli

Cominciare dalla fine potrebbe essere una buona soluzione. Iniziare dallo scroscio interminabile di applausi, dal tripudio soddisfatto e grato del pubblico in piedi. Perché una performance, la sua valenza, la riuscita o meglio la gittata afferrabile della sua natura di evento sensibile e sentito non si esaurisce al calo delle luci, alla discesa del sipario. Al contrario, l’efficacia concreta di qualcosa che vive nella presenza e che si sostanzia nell’alito del qui ed ora trova spesso un banco di prova ultimo e decisivo al termine dello svolgersi, travalicando i modi, nel seno persistente delle suggestioni. Come una pozione infusa più o meno gradualmente alla genetica della percezione, spesso il teatro è quello che ci portiamo a casa o che discutiamo oltre l’uscita dalla sala.

Così è stato per Still Life di ricci/forte presentato in anteprima assoluta (e forse in data unica) al Teatro Argentina all’interno della rassegna Garofano Verde, scenari di teatro omosessuale diretta da Rodolfo di Giammarco, giunta alla ventesima edizione. In merito a quanto si diceva all’inizio lo spettacolo beneficia indubbiamente dell’entusiasmo che accompagna la parabola dell’ensemble romano fin dalle origini e che ne ha fatto una delle realtà più seguite della scena italiana contemporanea anche all’estero. Se tali forme di riconoscimento e la rendita che il gruppo ne riceve rischiano di essere filtro poco obiettivo nel valutare effettivamente la proposizione di uno stile riconoscibile – a volte sul punto di apparire come esasperazione di se stesso – è vero pure che in questo caso la scelta scenica è apparsa mirata, centrata sulla via di un messaggio che senza troppe sbavature di maniera si avvera univoco nella molteplicità delle sue coniugazioni da iconoclastia post-contemporanea. Il lavoro, nato per omaggiare il suicidio di un adolescente romano omosessuale impiccatosi con una sciarpa rosa, esplora il tema della discriminazione, della crudeltà, dell’espressione vessatoria che ancora di frequente porta ad avvilire la differenza sino alla falcidia della dignità identitaria.

foto Daniele + Virginia Antonelli
foto Daniele + Virginia Antonelli

Lo spazio scenico – col prolungamento in platea e la chiusura al fondo del sipario tagliafuoco, segnata da una fila di ceri cimiteriali – è agito sino alla consunzione, stremato dagli attraversamenti che fuori dalle traiettorie motorie sono altrettanti capitoli di svisceramento del tema, passi che accompagnano il linguaggio, partitura di voci morte per incomprensione fuori dalla terra dell’accoglienza. I cinque attori – Fabio GomieroAnna GualdoLiliana Laera, Giuseppe Sartori, Francesco Scolletta – si presentano a noi entrando dalla sinistra nei loro abiti perbene e sulle note di The Banana Song di Shirley Ellis danno inizio a una conferenza che vuole essere udienza di vite non vissute, alveo di baci mai dati che si esaudiscono sulle bocche degli spettatori, novero di tanti, troppi nomi sconosciuti che nel finale si ricompattano fra la carta e l’inchiostro di un pennarello. Vincolato in misura minore alla cifra pop degli allestimenti precedenti e fuori da eccessive elucubrazioni corporali, molte sono le immagini costruite con e senza il beneplacito delle scritte che troneggiano in proiezione frontale. Alcune più impresse agli occhi: i volti otturati dai cuscini, nel soffocamento dei tratti che deflagra in un’esplosione di piume per scoprire l’ingenuità di maschere innocenti; la nudità solitaria di Scolletta, quasi un San Sebastiano che ha per dardi orme di anfibi e vernice ematica alle labbra, traduzione estetica di innumerevoli pestaggi; frattaglie cardiache, resti di macelli tritati, spremuti, battuti. E poi l’ultimo colpo alle pupille, ferita di fari rosa a dissolvere le sagome e a far da cappio emotivo del ricordo.

Perché non sempre il sangue ha bisogno di urlare nella mostra usurata della carne e perché forse in primo luogo per fare la differenza è necessario viverla. Se come diceva Artaud «l’attore è un atleta del cuore» il merito si rende alla limpidità del taglio, alla ricerca del verbo adatto a declinarla e al senso prima ancora che all’acclamazione della folla.

Marianna Masselli

Visto al Teatro Argentina in giugno 2013

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Fotogallery, clicca per ingrandire, foto di Daniele + Virginia Antonelli

ricci/forte
STILL LIFE (2013)
con Anna Gualdo, Giuseppe Sartori, Fabio Gomiero, Liliana Laera, Francesco Scolletta
drammaturgia ricci/forte
movimenti Marco Angelilli
direzione tecnica Davide Confetto
assistente regia Claudia Salvatore
regia Stefano Ricci
una produzione ricci/forte realizzata con il sostegno del Teatro di Roma

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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