Alla fine di una stagione tutto sommato interlocutoria – esemplari le sfere culturali di metropoli come Roma, che ha atteso e attende ancora la definizione completa di un comparto amministrativo in grado di governarla e fissare nuovi (si spera) equilibri che presiedono alle attività artistiche e non solo di città e di quartiere – si segnala con particolare evidenza la nascita di piccoli eventi e di rassegne di ogni natura, nei tessuti urbani come nei luoghi storicamente adibiti all’attività festivaliera: i piccoli centri del circondario provinciale. Questa proliferazione in tutto il territorio nazionale era un tempo salutata da grande entusiasmo perché foriera di una vitalità culturale che permetteva la germinazione di semenze impreviste, a questo spesso l’arte ci abitua, in luoghi formalmente inadatti, che si supponevano inadeguati a ogni tipo di coltivazione. Era il tempo in cui nei piccolissimi borghi d’Italia si poteva annusare – per lontana e futuribile parentela – il profumo del grande teatro d’arte. Oggi che siamo di fronte a numerosi cambiamenti determinati dalle difficoltà economiche e dalla trasformazione di una società che ha perduto in ogni settore il primato della formazione (artistica e artigiana) a favore dell’approssimazione, quale situazione si presenta?
Prima di tutto occorre distinguere fra le proposte: molto più che in passato, un festival di fine stagione è diventato una delle opportunità per i grandi teatri di sfruttare l’occupazione di maestranze altrimenti inoccupate e riconvertire fondi in attività produttive che possano testimoniare con documenti inoppugnabili (e dunque moltiplicare) il lavoro svolto e lo status di impresa virtuosa. È questo il caso soprattutto degli Stabili o Stabili d’Innovazione, che oltre la stagione regolare spostano in propri o limitrofi festival alcuni spettacoli da mettere in vetrina per l’anno successivo o replicano grandi produzioni che, non girando più come una volta, si sostengono sempre meno.
Di fianco a questo scivolamento, che di fatto sostituisce o contende quel lavoro svolto in precedenza da grandi e piccoli festival autonomi, ma che tuttavia non fa che promuovere un ambiente in continuo deficit di rilevanza, vi sono poi le piccolissime realtà animate da voglie intestine e da tensioni al teatro tali da immaginarne una formalizzazione: far confluire tutte queste energie in una dimensione aggregativa e vitale: appunto, un festival. Ma è davvero poi sempre un valore?
In questi ultimi anni tale espansione è stata una risposta fisiologica alla chiusura degli spazi in cui “fare teatro”, traslocando di campo in campo il ciclo biologico dell’arte. Ma nella bontà della proposta – vera o presunta che sia – c’è annidato un pericolo che rischia di far crollare in poco tempo la paziente costruzione di chi ha cercato la penetrazione territoriale e dunque la crescita culturale tramite le arti: lo spirito di volontariato che anima certe esperienze, se da un lato è un valore virtuoso, dall’altro dimostra alle amministrazioni che la battaglia per la professionalizzazione è un vezzo cui si può facilmente rinunciare; naturale è che tali esperienze poi, se sulla carta sembrano pari alle altre, vivano un realtà di improvvisazione e di inadeguatezza sia tecnica che organizzativa proprio determinate dall’assenza di un programma progettuale che dia corpo alla buona volontà, che sia in grado non solo di lanciare un desiderio ma di difenderlo e renderlo sostenibile, imporlo all’attenzione per la sua necessità e non per la necessità troppo spesso autoreferenziale di chi lo organizza, di chi vuole fare qualcosa e stare insieme ma non sa cosa e con chi. Lo fa, semplicemente, prestando il fianco per sé e per tutti alle accuse di chi ritiene superfluo e frivolo il lavoro culturale.
Un’ultima una riflessione a margine: in un periodo in cui troppo facilmente l’approssimazione raggiunge il potere di agire e di decidere, uno dei punti in cui si incaglia la politica culturale, soprattutto e paradossalmente “da sinistra”, è proprio il finanziamento di progetti, non attestando virtù artistiche ma cercando di convogliare esclusivamente l’arte come trasmittente di coesione territoriale e integrazione sociale. È bene ribadire allora che l’arte prescinde dalla politica, la permea e ne partecipa, ma mai accada il contrario. Secondo questi pochi parametri rinasca allora la capacità di interpretare le trasformazioni e di farsene veicolo, ci si riappropri di territori da far parlare e non li si sovrasti con il proprio parlare, almeno per non dimostrare che molto spesso, troppo spesso, non si ha niente da dire.
Simone Nebbia
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