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Atlante XXX – Aldo Morto 54. Un mese dopo

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Nei mesi passati la città di Roma ha ospitato forse una delle azioni più potenti e drammatiche che il teatro possa permettersi nei confronti del mondo contemporaneo; l’ha ideata e messa in opera Daniele Timpano (in collaborazione con Teatro dell’Orologio e Kataklisma), attore e autore da sempre animato da una grande passione per i fatti storici e per la connettività che dimostrano nei confronti dell’evoluzione umana, tanto da comporre spettacoli che tracciano punti cardinali di una storia d’Italia definita «cadaverica» da Graziano Graziani (nel libro che ne raccoglie i testi: Storia cadaverica d’Italia, Titivillus Edizioni, 2012) e che conta in un ipotetico convivio Giuseppe Mazzini, Benito Mussolini e Aldo Moro, ossia tre fattori che datano precisamente tre ere storiche di questo paese. Prendendo spunto dal suo ultimo lavoro a proposito dello statista democristiano ucciso dalle Brigate Rosse nel 1978 (Aldo Morto – Tragedia), l’attore romano ha fatto costruire una cella delle stesse dimensioni in una sala del Teatro dell’Orologio di Roma, in cui restare rinchiuso per 54 giorni, gli stessi (o quasi) passati da Moro nella “prigione del popolo”, concludendo appena un giorno prima dell’uscita coatta, o meglio l’omicidio, quel 9 maggio in cui fu ritrovato il corpo nella famosa Renault 4 rossa. L’auto-reclusione di Aldo Morto 54, visibile (male) in diretta streaming e rintracciabile da tutti i social network, avrebbe dovuto essere – e in parte è stata – un pretesto per sensibilizzare sul tema e fornire una struttura portante contenente incontri, dibattiti, performance collaterali e anche lo spettacolo, ogni sera in scena per una particolare “ora d’aria”, in un’altra sala dell’Orologio.

Oggi, a quasi un mese dalla conclusione del progetto, si può dire con netta forza di contraddizione che l’esperimento riuscito è fallito. Daniele Timpano si è fatto carico di un’azione importante, di particolare rilievo culturale, perché ha imposto a sé stesso una limitazione vitale per farsi tramite di un’esperienza quasi medianica, ha cioè potenziato l’azione teatrale di palcoscenico trasferendola su un palcoscenico più grande, potenzialmente sconfinato. La sua “pazza idea” ha coinvolto il ricordo del corpo di un morto dello Stato, quando non di un morto di Stato, traendone gli elementi che lo fanno icona ancora oggi di un punto cruciale della nostra storia politica in grado di trasferire, tramite l’immagine, la propria memoria alla collettività: per intenderci, nessuno ricorda, se non gli esperti, Aldo Moro politico e statista; tutti hanno in memoria l’immagine ipermediatizzata del suo sequestro, della sua reclusione, infine della sua uccisione, e con essa tutti gli elementi-feticcio che hanno seguito di lì in poi lo stesso destino. L’esperienza proposta da Timpano è dunque quella di riattivare performativamente – quindi attraverso il proprio corpo – un canale asciutto della riflessione, sostituendo per statuto progettuale l’immagine di sé stesso all’immagine di Moro, permettendo così di ragionare su tale sostituzione non per un folle gioco autocelebrativo, bensì per un meccanismo di ribaltamento dell’intenzione mediatica di cui siamo stati – e siamo – vittime: far riaffiorare l’Aldo vivo dentro il corpo di Aldo mor(t)o, usando come mai meglio di ora la propria organicità, il proprio corpo che si fa storico.

Ma se questi sono presupposti e risultati di un intervento artistico perfettamente contemporaneo, i risultati dei risultati sono scadenti, non raggiungono nemmeno la rilevanza locale. Questo impone una riflessione: il teatro ha perduto non solo il primato degli avvenimenti culturali italiani, ma ha perduto anche le posizioni di retrovia, si attesta nella percezione pubblica fra la non esistenza e l’esistenza storica: la foto di un parente di cui tutti raccontano, morto in guerra giovane e che ora – di fatto – non c’è più. Di Timpano e della sua azione non si è parlato o quasi, fuori dalla comunità teatrale, romana o trasversalmente nazionale; certo alcuni giornali ne hanno dato conto, certo Timpano è stato raggiunto dalla lettera sul Corriere della Sera della figlia Maria Fida che lamenta una violazione pur ignorando le intenzioni del progetto e scambiandolo per sciacallaggio, ma in entrambi i casi piuttosto che il teatro è stata la sensazione a farne parlare: il teatro è un sottomondo in questa Italia che da sempre aspira e brama di farsi mondo, la sua esistenza in ambiti che non siano quelli nel circuito dei Teatri Immobili è pari a quella delle pur laboriose formiche in un ordine terrestre che contempla le scarpe.

Teatro della sparizione del teatro è per eccellenza la città di Roma: coacervo di poteri e accentratrice di tensioni, è questa la città dove maggiormente si rende visibile quell’opera di sostituzione della realtà che è la rappresentazione della stessa; prendiamo proprio il Caso Moro: ogni 9 maggio una corona di fiori raggiunge assieme alle alte cariche dello stato e relativi reporter Via Caetani, luogo del ritrovamento ormai 35 anni fa; la funzione del commemorare è frutto di uno spirito conservativo che non ha intenzione di ricordare ma di accompagnare con l’immagine composta e reiterata un’opera di dismissione della memoria; in una sala teatrale invece Timpano ha ideato un’operazione antitetica, decostruendo il racconto delle sue sovrastrutture iconizzate e cercando di riaffermare in esso quanto c’è dell’uomo, cioè della verità. La verità. Che del teatro è oggetto primario. Rimuoverlo è allora la dichiarazione più netta dell’intenzione di questa attuale società: ripetere un codice scaduto di cordoglio in luogo di un pietoso raccoglimento è della verità la piena sostituzione e, anno dopo anno, fiore dopo fiore, il perpetuarsi della finzione.

Simone Nebbia

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2 COMMENTS

  1. Ah ma non l’avevo sentito in versione podcast!! complimenti!! 🙂
    Divertente…. ne hai già fatti di articoli musicati e cantati?

  2. Caro Daniele, invece che l’audio finale dovremmo mettere quelli tagliati con errori e imprecazioni…allora sì che sarebbe divertente! 🙂
    A quelli cantati ci penso su…

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