Déja-vu. Entrare oggi all’Ex Deposito ATR di Forlì, da tre anni nuova sede del Festival Ipercorpo, provoca un cortocircuito visivo: è un posto che si ricorda, che la memoria rintraccia in un’immagine già avuta negli occhi, che si riconosce non come un luogo in cui siamo stati, ma con l’espressione dubbiosa di un ricordo sfocato che non sapremmo dire se vero o appena sognato. Se nei primi anni l’esperienza di Claudio Angelini con Città di Ebla era giunta in questa vecchia rimessa di bus locali come un approdo, una volontà speleologica di rinnovamento culturale della città, in questa edizione il festival ha trasformato la sua vocazione, per meglio dire l’ha spostata più in avanti, creando un’opportunità prima inimmaginabile: una piattaforma internazionale per far conoscere i lavori di compagnie già affermate in Italia a programmatori provenienti da festival e teatri europei, da un lato con una nobile intenzione mercantile, dall’altro con un ancor più nobile spirito di confronto della ricezione, organizzando momenti di visione e altri per lo scambio di idee e prospettive. Il tascabile che ci accompagna per i quattro giorni di festival ha una doppia faccia: per metà è in lingua italiana, ma girando il libretto sul dorso si scopre l’intero programma tradotto in lingua inglese. Da questa piccola pubblicazione inizia un viaggio alla scoperta reciproca di esperienze lontane che il sogno prima e la concretezza poi hanno immaginato qui, simbolicamente luogo dei viaggi soppressi, dimenticati, e ora di nuovo possibili non più a bordo di pullman, ma sulle incerte navicelle dell’arte.
Italian Performance Platform, ideato e organizzato grazie alla cura di Mara Serina di iagostudio, ha ospitato operatori di diverse nazionalità per valutare l’opera delle compagnie coinvolte, oltre Città di Ebla quelle afferenti alla Cooperativa E (Fanny & Alexander, ErosAntEros, gruppo nanou, Menoventi) che sta lavorando per Ravenna Capitale Europea della Cultura 2019, aprendo un pomeriggio anche alla presentazione di gruppi esterni selezionati da Silvia Mei (Roberto Corradino, Instabili Vaganti, In_Ocula, Opera, Francesca Proia) e completando l’offerta festivaliera con altre performance collaterali di contaminazione linguistica con il video e con i concerti musicali.
Un’occasione imperdibile, dunque, per attivare un confronto e stimolare qualche riflessione. Scopriamo così, dialogando con alcuni di essi, analogie e differenze nell’offerta culturale e nella fruizione. Noemi Kovacs, danzatrice e qui per L1Dance Fest di Budapest, ci dà un quadro molto interessante raccontando di un festival nato per promuovere giovani artisti ungheresi e trasformato poi in un’opportunità di confronto con altre realtà estere, ottenendo per realizzarla il sostegno delle ambasciate presenti sul territorio; questa modalità, da noi davvero poco usuale, permette anche di affrontare un discorso sulla relazione, perché se da un lato la ricerca del contatto estero è portatrice di un contagio culturale, dall’altro è determinata da una differenza notevole nei rapporti interni fra le compagnie, riscontrata anche negli altri contesti europei, che non compongono come in Italia una comunità trasversale ma vivono esperienze più individuali.
Anne-Kari Ravn del Danish Dance Theatre di Copenhagen ci parla invece della grande ondata di pubblico presente alle performance all’aperto che compongono il festival danese, in cui la danza conquista le piazze e gli spazi larghi; grande attenzione del pubblico dunque, come nel diffuso mercato del Tanzmesse Platform di Düsseldorf (qui con Kajo Nelles) o nel nuovissimo spazio berlinese di Unidram Festival a Potsdam, diretto da Thomas Pösl, che ci racconta una partecipazione trasversale di ogni generazione, diversamente dalla nettezza di territori che in Italia divide lo spettatore di teatro classico da quello sperimentale. Danza, ma non solo: Helen Lannaghan e Joseph Seelig del London Mime Festival definiscono i loro intenti con «tutto ciò che non è parola», confermando anche la deriva che ha trasformato la vocazione di unione fra tradizione e innovazione del Teatro Les Brigittines di Bruxelles, qui con Jeanne Boute, verso sempre più teatro di movimento, proprio fino ai confini con la danza.
Tu sei qui. You are here. Doppia lingua sui manifesti del festival per la stessa attestazione di presenza, attiva e concreta. L’ATR è un luogo riqualificato che oggi si mette il vestito buono, come quando vengono gli ospiti a casa; eppure in alto, a ben guardare, ci sono ancora le reti di protezione per un soffitto cadente, c’è ancora il senso del pericolo di cui l’arte si intride e che – dentro e fuori scena – riunisce sotto lo stesso tetto chi ha scelto di “essere qui”. Qui emerge forse il dato più interessante: ognuno dei festival coinvolti, quando non ha uno spazio adeguato all’occorrenza anche se non monumentale come quello avveniristico di Potsdam o le “chiese gemelle” di Bruxelles o le arene urbane di Copenhagen, sposta le proprie attività in vari luoghi teatrali, arrivando come nel caso del Mime anche a prenderli in affitto. Insomma se non ci sono spazi adatti non si ricorre all’adattamento ambientale, non si tende ad “abitare” un luogo perché vi passi arte ma a definirla entro uno spazio circoscritto e universale. Ora sono qui. They are here now. Per valutare e farsi un’idea della ricerca contemporanea italiana, ma anche per vedere, dietro i pannelli neri che delimitano le sale per le performance, spuntare la scocca esterna del vecchio bus celeste dell’ATR, per pochi giorni nascosto a fare nuovo uno spazio già visto.
Simone Nebbia