A fine spettacolo mi intrattengo con un giovane spettatore, avrei scoperto dopo qualche chiacchiera essere uno degli allievi di Elvira Frosini e del Katalab, percorso di formazione tenuto dall’artista nel piccolo spazio Kataklisma. Tra le cose che più avevano colpito l’attento sguardo di quell’appassionato vi era il suono nauseante di una masticazione vorace, frenetica attività muscolare amplificata nei suoi più evidenti rigurgiti, tabù della nostra educazione, attività quotidiana celata e per questo irritante. In una penombra scurissima che lascia alla pupilla solo la luce sufficiente a scrutare la silhouette di una bionda parrucca chinata verso il basso, si consumano quelli che sono probabilmente i caratteri più potenti dell’intero spettacolo, ne sono cuore e metonimia: in quel disgustoso muoversi di mascella, lingua e saliva, nella sua amplificazione sonora c’è l’Occidente abituato a consumare più del necessario, la foga dei migliaia di pranzi, cene, cenoni, banchetti, degustazioni, brunch, colazioni, buffet che ci accompagnano in una vita intera.
In Digerseltz, tornato alla sala Orfeo del Teatro Orologio a Roma rinvigorito da una tournée in tutta Italia, Elvira Frosini si muove pochissimo, eppure la sua fisicità è puntualissima proprio nei più piccoli dettagli, nei piccoli passi come nei movimenti a terra, nelle pause che si prende tra un fiume di parole e l’altro. Quella bulimia espressa nel tema, voracità inappagabile, trova il suo riflesso nella voracità verbale del testo. In scena c’è quasi nulla se non piccoli oggetti e delle icone bidimensionali che nel finale andranno a comporre un ironico e “affettuoso” presepe; il cibo di cui si parla è tutto nelle inarrestabili tirate. D’altronde l’attore stesso è cibo, carne da consumare: «me ne sto qui, sola come un pezzo di carne nel piatto», parole pronunciate dalla performer in uno dei momenti più toccanti dello spettacolo, quando dopo aver abbandonato la parrucca bionda viene avanti verso il pubblico, con fragilità disarmante nella voce e negli occhi, con una magrezza che per antinomia diventa contraltare efficace della grande abbuffata. Parlando del cibo si parla anche della sua assenza.
Le immagini di Elvira Frosini sono certamente fotografie instagrammate di un paese, verrebbe da dire, fondato sul cibo e non sul lavoro, che ha secolarizzato a suo uso e consumo i riti legati al mangiare, ma altresì fanno da specchio deformato ai mutamenti che sottopelle iniziano ad aggredire il paese stesso: le classi più deboli ridotte alla fame, i disoccupati che fanno compagnia ai migranti, occupanti di quella zona grigia di invisibilità in cui siamo abituati a relegarli. E allora la grande abbuffata di Digerseltz può essere letta anche come il suo contrario, come se il fiume di parole rimanesse nell’aria, rimbalzando ottusamente nel vuoto della scena e scivolando via sul magrissimo e sincero corpo di Elvira Frosini.
Andrea Pocosgnich
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DIGERSELTZ
L’artista è come il maiale: non si butta niente
drammaturgia, regia e interpretazione: Elvira Frosini
collaborazione artistica: Daniele Timpano
disegno luci: Dario Aggioli
materiali di scena: Antonello Santarelli
assistente alla regia: Alessio Pala
foto: Claudia Papini, Antonello Santarelli, Michele Tomaiuoli, Futura Tittaferrante
musiche originali: Marco Maurizi
produzione: Kataklisma
in collaborazione con:
Officine CAOS/Stalker Teatro, Arti Vive Habitat, Consorzio Ubusettete