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Dall’Italia alla Francia, da una cultura di città a una cultura di corte. Intervista a Bernhard Rudiger – Casa 3

E qui è tornato l’autunno come a novembre. E dai nostri divani, mentre la città piange sui vetri, non possiamo che pensare a quanto diamine sia diversa questa terra dalla nostra.
Questa terza Casa parla attraverso le parole di Bernhard Rudiger, artista italo/tedesco classe 1964, che da Roma nel ’94 si sposta a Parigi, proseguendo la sua prolifica attività di artista, curatore e docente.
A segnare la distanza tra due culture è sempre il linguaggio, quello delle frasi, quello dei corpi e dell’arte. E questa distanza è il fascino e l’ostacolo, anche una volta che ci si sente padroni della lingua straniera (che lingua e linguaggio non siano la stessa cosa, è palese al primo sguardo). Allora imparare a decifrare una cultura attraverso il linguaggio che parla e la storia che questo trasmette è lo scopo quotidiano, che perseguiamo con curiosità e fervore di bambini.

E in una terra in cui ogni giorno sentiamo parlare di “spazio pubblico” e ancor meglio di “arte negli spazi pubblici”, capiamo che il linguaggio non è solo un’infilzata di parole. Che cosa celino queste definizioni politiche e culturali sarà Bernhard a raccontarlo (anche a me). In un momento in cui anche in Italia si aprono prolifiche discussioni sui beni comuni, ancora più interessante è cercare di capire il loro significato in un contesto culturale e politico ben diverso da quello italiano.

Dall’Italia alla Francia, da una cultura di città ad una cultura di corte.
Intervista a Bernhard Rudiger, Parigi 18 Maggio 2013

La Casa
foto www.italianarea.it

Perché a metà degli anni Novanta tra Italia, Germania (viste le tue origini tedesche) scegli la Francia? Quale desiderio o forse un’opportunità ti porta qui?
Il contesto italiano e soprattutto milanese inizio anni Novanta era difficile. Una forte crisi economica ha rimesso in dubbio tutta l’economia dell’arte. All’epoca avevo una galleria con altri colleghi, lo Spazio di via Lazzaro Palazzi, che costava parecchi soldi. La galleria voleva essere uno spazio che non dipendesse dall’economia, quindi per guadagnare avevamo fondato una società che montava mostre per artisti, soprattutto per quelli dell’Arte Povera. Ma quando l’economia ha iniziato a non girare più, non siamo più riusciti a mantenere questo equilibrio.
Poi c’è stata la mia partecipazione alla Biennale di Venezia del ’93 che era diretta da Achille Bonito Oliva. È stato in quel momento che mi sono definitivamente reso conto che il mondo dell’arte stava cambiando in modo radicale. Con Liliana Moro (artista milanese, cofondatrice dello Spazio di Via Lazzaro Palazzi) avevamo realizzato una grande opera alle Corderie: La Casa, una casa appunto con il tetto abbassato. Lo spettatore era portato a passarci in mezzo, come in una specie di forca caudina, lasciando la testa all’esterno dell’abitazione. Nelle due parti della casa erano diffuse le nostre voci: Liliana Moro leggeva brani degli scritti di Peter Handke sul senso e la struttura della colpevolezza e io citavo la prima frase dell’ultimo articolo di Pasolini sulle mafie, sugli attentati degli anni Settanta: «io so perché sono un intellettuale». Terminato di realizzare l’opera, una squadra di operai installa di fronte La Casa il pannello pubblicitario di un profumo. Era l’opera di Cattelan, che aveva venduto il suo spazio a una società di profumi. Questo mi ha fatto pensare che il cambiamento in corso era radicale. Questo mondo neoliberale che iniziava a svilupparsi in Italia era davvero difficile da accettare.
Per puro caso in questa situazione ricevo la telefonata di un Frac (Fondo regionale per l’arte contemporanea) della Regione Centro, che mi offre una borsa di studio per un anno a Bourges.
Alla fine della borsa Michel Rein mi propone di lavorare con lui nella galleria parigina che aveva appena aperto. Poi ho iniziato a lavorare come docente di Belle Arti, prima a Tour, poi a Lyon, dove ancora insegno.

Da insegnante all’accademia di Lyon, una delle migliori accademie francesi, che differenze riscontri rispetto all’accademia italiana? Che rapporto riscontri tra il mondo dell’arte e l’accademia qui in Francia?
In Italia la struttura delle scuole è molto complessa. L’insegnamento procede per “difetto” direi. Quasi tutti i pittori romani hanno studiato scenografia con Scialoia, questo perché in pittura non c’è un alto livello di insegnamento, cosa che dipende in gran parte dalla centralizzazione del sistema dei contratti. Scuole come quella di Brera hanno iniziato a sovvertire le regole, schivandole, offrendo dei contratti a progetto a degli artisti per insegnare. Una cosa interessante in questo sistema sclerotico è il fatto che molti bravissimi storici dell’arte insegnino in accademia piuttosto che all’università. In Francia invece la storia dell’accademia è molto diversa. La cultura francese è una cultura di corte dall’epoca barocca. Questo vuol dire che da Luigi XIV in poi il ruolo dell’artista è il ruolo anche del cortigiano. La cultura è centralizzata con un volere molto forte dello Stato. In questo contesto esiste un’accademia principale, che è quella di Parigi, con quattro accademie secondarie. La stranissima centralità dell’Ecole des Beaux Arts di Parigi è durata fino agli anni Sessanta, quando c’è stato un momento di grande cambiamento per le scuole d’arte, che ha permesso, attraverso delle riforme, di dare maggiore rilievo all’attività degli artisti all’interno delle scuole stesse.

Rispetto a questa interessante lettura della cultura francese come una “cultura di corte”: pensi che sia ancora così? Le politiche culturali a favore dell’arte contemporanea si inscrivono dunque all’interno di questo spirito cortigiano?
Sul piano delle politiche culturali vi sono stati due momenti importanti in Francia: il periodo della prima decentralizzazione, quando nascevano i primi centri teatrali e culturali in provincia, e poi l’azione di Lang, durante il governo Mitterand, a sostegno dei creativi e dell’arte contemporanea in particolare. È stato realizzato un sistema di borse di studio, azioni di promozione, centri di ricerca a favore del contemporaneo. Ma malgrado ciò, la cultura francese resta una cultura di corte, poiché anche queste forme di sostegno sono infine simboli di un’emancipazione nati da una volontà centrale.
Anche quando si parla di “contemporaneo”, si intende il giusto linguaggio che bisogna conoscere oggigiorno, come all’epoca delle corti, quando se non si conosceva il linguaggio del tempo si veniva derisi.

pistoletto
foto di Anna Osnato

Anna Osnato (blackbarry)

Les “espaces publiques”, sono spazi ma soprattutto un concetto attorno a cui si discute molto in Francia, qualcosa sempre più presente nei discorsi legati alle politiche culturali. Si parla di “art dans les espaces publiques”, che è qualcosa di cui raramente si sente parlare in Italia, sebbene ci siano interventi artistici eccellenti negli spazi pubblici – vedi Le Stazioni dell’Arte, il mastodontico progetto di A. Bonito Oliva nella metropolitana di Napoli. Qui è una formula linguistica adottata dalla politica, mentre in Italia resta un concetto rivendicato dai singoli, e oggi sempre più da movimenti che uniscono il politico all’artistico. Rivendicare uno spazio pubblico per l’arte cosa vuol dire? È un modo per riportare l’arte alla società – contro un processo di intellettualizzazione – o piuttosto un modo per rivendicare degli spazi per l’arte, in termini di luoghi e denaro pubblico?
Penso che esistano aspetti diversi legati a questa questione. L’Italia, che è uno stato di Comuni, per ragioni storiche ha mantenuto una diversità linguistica importante, quindi una varietà culturale importante, e infine un forte germe individuale alla base della creatività. È stato il fascismo a creare la prima idea di cultura nazionale ispirandosi ai futuristi, ma l’idea di cultura è sempre stata legata a un volere cittadino, a un signore, un intellettuale, a un’individualità forte. La stessa cosa potremmo dire della Germania.
La Francia invece ha una cultura di fortissima nazionalizzazione già a partire dal Quattrocento, che ha annullato le specificità individuali, cosa che si riscontra anche nella lingua. Quindi parlare di “spazi pubblici”, sul piano delle politiche culturali, tenendo conto della storia che ha caratterizzato la Francia, ha due significati. Da una parte vuol dire un’azione di democratizzazione, giustizia, eguaglianza; dall’altra invece, sottolinea una volontà, anche se in parte implicita, che è pedagogica.
Resta una cultura comunque abbastanza cortigiana nel senso che fondamentalmente fondata sull’idea che il popolo non conosce la cultura, e che quindi questa deve essere diffusa. Un esempio di ciò è stato il movimento del Nouveau Réalisme francese degli anni Sessanta, che promulgava un’idea di democratizzazione dell’arte che alla fine significava l’imposizione al popolo di una cultura ritenuta popolare. Questo scopo pedagogico si basa sull’idea che il cittadino, in quanto persona, non ha una cultura a lui propria, come se la cultura debba essere sempre legata al verbo e alla lingua, quindi a qualcosa che si apprende, che ha delle regole che ne definiscono la giusta composizione, riferite alla frase, alla lingua e quindi al pensiero. Ed è sempre molto difficile contravvenire a questa idea pedagogica che è alla base dell’idea di cultura in Francia.
Ad esempio nel ’97 ho partecipato ad un progetto che si chiamava “Art dans la ville” che voleva risanare aree geografiche estremamente disastrate attraverso l’azione dell’arte. Ho lavorato in bassa Normandia, in quartieri dove anche i negozi chiudevano, e l’ottanta per cento degli abitanti era costituito da immigrati senza diritto di soggiorno. Mi chiesero un’azione pedagogica tradizionale, ma in questo posto non mi pareva avesse senso svolgere dei corsi di iniziazione all’arte nelle scuole, ho preferito invece dare lavoro a un piccolo gruppo di giovani, stipendiandolo per lavorare nel mio atelier per un periodo determinato. Lavorammo a dei modelli da costruire in fabbrica e sulla registrazione di alcuni testi classici come il Prometeo. Penso che sia possibile propagare la cultura per irradiazione, a partire ad esempio da questo piccolo gruppo di ragazzi con cui ho lavorato in stretta collaborazione, ma per gli organizzati il mio metodo, che non era tradizionalmente pedagogico, era ideologicamente inaccettabile. Alla fine sono arrivati anche a censurare la mostra che ne era scaturita. Questa è una delle perversioni francesi, che passa anche attraverso il linguaggio, in francese il pubblico è plurale “les publiques”, questa espressione è molto perversa perché dietro una forma che vorrebbe significare un’eguaglianza fra tutti si cela in realtà la differenza tra un pubblico colto e uno che non lo è. Direi che lo spazio pubblico in Francia è un problema complesso e un concetto ambiguo. È uno spazio conquistato dalla Rivoluzione francese, ma è anche uno spazio negato alla Comune di Parigi, nel modo più violento che si possa immaginare. Da un lato la rivoluzione ha diffuso il concetto di democrazia, in cui si inscrive anche la volontà di riappropriarsi delle piazze e dei simboli dello spazio pubblico, delle sculture per esempio, contro l’idea di un re proprietario naturale dei corpi e dello spazio. Ma alla fine, che questo potere (quello del re, ndr) si ristabilisca, come Napoleone prima e Napoleone III dopo hanno dimostrato, attraverso l’eccezionalità di una persona, è tipicamente francese. Lo stesso primo presidente in Francia è una figura che incarna una specie di finto re, eletto dal popolo e detronizzabile. Ma l’idea davvero democratica, cioè quella della Comune di Parigi che insorge contro lo Stato defettista e difende la Francia dai tedeschi, è stata massacrata senza problemi. E la Francia si costruisce su questo massacro. Quindi mi sembra che quando si parla di spazio pubblico si parli di un diritto democratico ma anche di un diritto sottomesso ad un volere. In Italia nessun primo cittadino può imporre il suo gusto, in Francia un politico influente può opporre influire su scelte artistiche. Mi è successo all’ultima mostra da curatore, censurata dal sindaco che non amava il quadro in cui c’era un gatto impiccato.

foto www.fondazionevolume.com
foto www.fondazionevolume.com

Secondo te il discutere diffusamente attorno alle politiche culturali toglie spazio al discorso puramente artistico? Là dove la politica utilizza e crea il linguaggio dell’arte, che caratteristiche questo stesso linguaggio assume, e che pensiero culturale veicola?
Qui gli artisti sono spesso chiamati a intervenire quando non si sa più a che santi rivolgersi. L’arte può costruire risposte artistiche, sociali e politiche al tempo stesso, cosa che senza questa struttura a sostegno, dovuta alla presenza di politiche culturali forti, non avrebbe voce. Ad esempio Buren ha costruito negli anni Ottanta un’opera a Lyon di fronte al palazzo del potere pubblico, dove c’è anche il museo pubblico. L’opera consisteva nel rigirare la statua che era nel mezzo della piazza di modo che guardasse al museo invece che al palazzo. Poi c’è il discorso sul ridicolo. La cultura francese non accetta un linguaggio che sia ridicolo, retorico, esagerato. Come nelle corti le parole devono essere sufficientemente penetranti per poter essere ricordate e sufficientemente ambigue da poter, in caso, aggiudicare la colpa dell’incomprensione all’interlocutore. Il linguaggio, e dunque anche quello artistico, è legato a questa necessità di non essere esagerati per non esporsi. Le forme espressioniste, come le forme molto forti di soggettività, sono dunque poco sviluppate nell’arte francese. Mi pare che il discorso sullo spazio pubblico abbia a che vedere con questo, cioè con la coscienza che lo spazio pubblico è uno spazio pericoloso, dove si possono dire cose forti ma in modo tale da lasciarsi sempre una possibilità di fuga. Nelle culture contadine legate come quella italiana e tedesca, la singolarità invece è fondamentale. È nella diversità delle piccole città, nella soggettività del singolo che si crea pensiero, al contrario di una cultura come quella francese che è stata centralizzata molto presto, per la quale la singolarità è problematica e va trattata con attenzione.

Uno dei due lavori che presenti in questi giorni alla galleria Bernhard Bouche fanno parte di una serie di lavori dal titolo Ku Klux Klan, famigerato movimento razzista degli Stati Uniti d’America. Ho letto solo dopo del titolo. Non avrei mai pensato a maschere da terroristi, pensavo alla modellizzazione dello spazio, allo scandire del tempo, alla costruzione di un’esperienza percettiva attraverso l’oggetto artistico… Che spazio ha la politica nel tuo lavoro?
La coscienza politica ha un’importanza radicatasi nel tempo per il mio lavoro. Ho sempre sentito una pressione a cui non potevo non rispondere. All’inizio della mia carriera il senso politico era in relazione con la questione della dicotomia fra lo sguardo soggettivo, quindi l’esperienza diretta del mondo, e la proiezione cosciente di quello che guardo, dunque la questione dell’immaginazione. all’epoca lavoravo su questa dicotomia, come dimostra il lavoro della Biennale di cui ti parlavo (La Casa). un momento schizofrenico per cui sei in uno spazio e ti proietti mentalmente allo stesso tempo in un altro spazio. Il fatto di essere in uno spazio specifico e di proiettarsi contemporaneamente in un altro spazio, per me ha un senso politico, perché mette in relazione il soggetto con il contesto. Il problema fondamentale quindi per me si esprime nella giusta domanda, che non è: cosa vedo?, ma piuttosto: vedo qualcosa? Nell’esperienza estetica ci si lascia prendere da ciò che i sensi stanno elaborando, in un andata/ritorno continua fra sensibile e cosciente.
Alla galleria di Sergio Casoli avevo fatto una mostra con Liliana Moro in cui la mia opera era costituita da dodici vecchie cucine a gas che disegnavano un orizzonte di fuoco. Eravamo agli inizi della Guerra del Golfo, per me momento più problematico della storia dopo la caduta del Muro di Berlino. Una parte della mia famiglia veniva da Berlino Est, mi ricordo viaggi in cui ci si rende conto di non conoscere nemmeno la geografia… Con la guerra del Golfo abbiamo iniziato a renderci conto che non eravamo per niente una cultura pacifica. La mostra da Casoli si intitolava “Ai nostri amici”, ma entrando nella sala il pubblico (quindi gli amici) era investito da un tale calore che nessuno riusciva ad arrivare fino in fondo per poter vedere i piccoli modellini di Liliana nascosti fra le mie cucine a gas. Questo ostacolo fisico, che rende impossibile vedere ciò che si era stati chiamati a vedere, ha un senso politico per me. Dopo l’esperienza di questa guerra comincio a pensare al tempo come qualcosa di non regolare e consequenziale. Ci sono momenti che sono dei disastri, momenti di deflagrazione dell’umanità, tagli, shock impossibili da riassorbire anche per chi nasce dopo, non solo per chi li ha vissuti. E l’arte, come sottolinea Benjamin, risente di questi shock della Storia. A partire dagli anni Quaranta, in un mondo in cui ci si sente sempre in pericolo, la politica si estetizzava e l’arte diventava etica. L’essenza della cattiva politica penso dunque che sia questa assenza di memoria. E poi la costruzione di grandi narrazioni nazionali. Mentre secondo me, quando abbiamo perso ogni sentimento di appartenenza a un territorio, a una genealogia, a una tradizione famigliare (e dunque anche ad un anti-tradizione), e ancor di più in conseguenza a una cultura del virtuale, in questo momento più che mai penso che Benjamin avesse ragione, che l’estetica non può più essere pensata senza l’etica. Oggi ancor di più per me la domanda non è: cosa vedo? ma piuttosto: vedo qualcosa? E a questo problema i lega il problema attuale del mercato dell’arte, dal momento che l’aspetto estetico dell’arte è sostituito da quello mercantile, dove molti hanno deciso, forse incoscientemente, che l’esperienza estetica non conta più.

Chiara Pirri

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