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Peter Brook al Valle Occupato: meraviglia, sul filo del rasoio

Foto Teatro Valle
Foto Valeria Tomasulo

«Io non sono stato testimone di miracoli, ma ho visto che uomini e donne straordinari esistono davvero; straordinari per la qualità con cui nella loro vita hanno lavorato su se stessi. Questa è la mia sola certezza ed è stata la ricerca di questo “qualcosa” che sfugge a guidarmi, indipendentemente da quanto spesso sia stato dimenticato o ignorato. […] Ora prendo in considerazione la mia esperienza personale e sento l’intima validità delle parole di Lear: “ah, me ne sono curato troppo poco”. Crescendo ho odiato soprattutto la pietà e l’umiltà con il capo chino; eppure oggi è chiaro che i propri sforzi isolati sono foglie al vento e che da soli non possiamo fare nulla, abbiamo bisogno degli altri sempre. Quando cominciai a esprimermi, mi sembrava che tutto potesse essere spiegato; adesso vedo che renderei un cattivo servizio se tentassi di spiegare qui con poche frasi ben dette che cosa mi ha guidato negli anni, anche perché non lo so. Non sapere non è rassegnazione; è aprirsi allo stupore. Con gioia ho tentato di guidare gli altri o di fare qualcosa da me; questo atteggiamento ha dovuto inevitabilmente piegarsi davanti alla verità sempre scomoda secondo cui cominciamo a esistere soltanto quando siamo al servizio di uno scopo che va oltre le nostre preferenze o avversioni».

Brook al Valle 1
Foto Valeria Tomasulo

Così, a testa alta dinnanzi alla straordinarietà, si potrebbe dire che tentare di enunciare o comprimere tutto ciò che ha a che vedere con Peter Brook e con il suo teatro in queste pagine sarebbe improprio e riduttivo. Si è raccontato da se stesso il suo lavoro, tra le parole dette, in quelle scritte e ancora fra quelle che per fortuna non basteranno mai, per limitazione irriducibile, a pronunciare una materialità e una concretezza realizzativa tali da sconfessare il linguaggio, sino a farlo inadeguato ogni volta che tenta d’ingabbiarle.

Ha incontrato il pubblico al Teatro Valle Occupato in occasione della proiezione di The Tightrope, film già presentato alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia per la regia del figlio Simon Brook. La pellicola è il primo documento filmato e la prima concessione di svelamento del lavoro del direttore e della compagnia durante le prove. La conduzione per l’occasione è lasciata a Concita De Gregorio e Isabella Imperiali. Per volontà le sedute sono disposte in platea piuttosto che in palcoscenico, scelta motivata anche dallo sbigottimento espresso al cospetto di quel “Maestro” affibbiatogli in Italia, incomprensibile per chi, in nome dell’uguaglianza, non vuole che si faccia di lui un “profeta politico”. Come a dire che l’attraversamento e l’esperienza sono condivisione, senza alcuna chance di unilateralità percettiva: quello che si presenta ai nostri occhi è l’uomo, il regista, il visionario, il pensatore e infine il maratoneta della qualità della presenza in scena.
Durante la conversazione molti sono gli argomenti in cui è facile rintracciare i punti principali e i maggiori riferimenti del pensiero brookiano di sempre, così come quelli degli ultimi tempi: accenni alla Duse e a Shakespeare non nuovi a chi abbia confidenza con la sua biografia artistica e non; un approfondimento in chiusura sull’interessamento per gli studi sul cervello già ben sviscerato nel testo La porta aperta; un rimando alla ripartizione in tre tipi di teatro possibili ovvero l’utile, l’inutile e il dannoso, grazie al quale spiega ancora una volta che l’unica ragione della sua persistenza risiede in una lampante possibilità, cioè fornire allo spettatore quel qualcosa in più rispetto all’osservazione della vita che, senza cadere nella trappola del poetico, gli permetta di fluire tra bellezza e bruttezza fino a un livello altro in cui far affiorare una speranza forse assente all’ingresso in sala. Quando gli chiedono ragguagli rispetto alla difficoltà ormai risaputa di trovar fondi per gli allestimenti, si limita a ricordare che per fare il teatro basta una sala e un gruppo di attori e anche che, qualora non ci fosse la stanza, lo “spazio fuori” sarà sufficiente.

Brook al Valle 3
Foto Valeria Tomasulo

La pellicola che segue è da un lato rivelazione, una conferma misteriosa dall’altro. Squarcia il muro della preparazione, delle esercitazioni – inserendo momenti di intervista – ed apre uno spiraglio sull’elaborazione di quel distillato d’esistenza che Brook definisce nella sostanza performativa. Il titolo stesso, filo del funambolo che allude al proverbiale “filo del rasoio”, suggerisce ed enuncia sì il punto di partenza, l’incipit di allenamento e creazione attorno a cui si sviluppano tutte le situazioni mostrate in montaggio, ma è anche parafrasi di un’attitudine, midollo funambolico di quella vertigine e di quel brivido senza cui la “qualità” non avrebbe modo di manifestarsi. Muoversi sull’orlo del baratro, col rischio costante di sprofondare, di perdere di profondità, appare dunque l’unica via per l’attore e per la concezione d’un mestiere che nulla ha a che fare con il terrore della scompaginazione salvifica e della scoperta.

La paura in questo regno non ha mense a cui nutrirsi, la cancrena della prassi è amputata dallo stupore. Meglio continuare a preferire la resistenza non chiassosa, bestemmiare la religione dell’arte per scoprirne in questo modo il concreto valore spirituale. E per il tempo che ancora desiste al campo dell’effettivo la parola fallace si concede per l’ennesima volta al suo predicatore: «Attraverso le persone straordinarie che ho incontrato, ho raggiunto una sola certezza luminosa. La qualità è reale e ha una fonte. In ogni momento una qualità nuova e inattesa può sgorgare all’interno di un’azione umana e altrettanto rapidamente può essere perduta, ritrovata e di nuovo perduta. Questo valore indefinibile può essere tradito dalla religione e dalla filosofia; le chiese e i templi possono tradirlo; i fedeli e gli infedeli non fanno che tradirlo. Eppure la fonte nascosta rimane. La qualità è sacra ma è sempre in pericolo. In un villaggio africano quando un cantastorie arriva alla fine del suo racconto, appoggia il palmo della mano sulla terra e dice: “Poso qui la mia storia”. E aggiunge: “Così forse qualcuno, un giorno, potrà riprenderla”».

Marianna Masselli

Visto al Teatro Valle Occupato in aprile 2013

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Marianna Masselli
Marianna Masselli
Marianna Masselli, cresciuta in Puglia, terminato dopo anni lo studio del pianoforte e conseguita la maturità classica, si trasferisce a Roma per coltivare l’interesse e gli studi teatrali. Qui ha modo di frequentare diversi seminari e partecipare a progetti collaterali all’avanzamento del percorso accademico. Consegue la laurea magistrale con una tesi sullo spettacolo Ci ragiono e canto (di Dario Fo e Nuovo Canzoniere Italiano) e sul teatro politico degli anni '60 e ’70. Dal luglio del 2012 scrive e collabora in qualità di redattrice con la testata di informazione e approfondimento «Teatro e Critica». Negli ultimi anni ha avuto modo di prendere parte e confrontarsi con ulteriori esperienze o realtà redazionali (v. «Quaderni del Teatro di Roma», «La tempesta», foglio quotidiano della Biennale Teatro 2013).

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