Cosa è in grado di spalancare nel nostro immaginario una porta? Ancor prima di essere oggetto concreto essa è metafora e simbolo di mondi estranei, di incantate aperture ma anche divieti, barriere, impossibilità a continuare il proprio cammino al di là del confine stabilito. Nel romanzo di Magda Szabò intitolato appunto La porta, da cui l’omonimo spettacolo diretto da Stefano Massini prende ispirazione, questo limite definisce l’esistenza di Emerenc, portinaia e domestica dal cuore indurito per i dolori e le perdite, e Magda, agiata e tormentata scrittrice che vive come sotto una cupola di vetro. Il rapporto tra le due donne verrà segnato da chiusure, prima fra tutte il veto assoluto ad invadere lo spazio privato di Emerenc, ma da cui ogni tanto emergeranno spiragli di condivisione, durante i quali le preoccupazioni di Magda o i ricordi pieni di rimpianto di Emerenc acquisiscono la forza di un sottile ma intenso squarcio di luce.
La sala studio del Teatro Vascello, in una disposizione un po’ infelice con il pubblico stipato nella lunghezza di una stanza stretta e bassa, accoglie un palchetto sul quale sono poste due sedie, due leggii ed un telo bianco su cui verranno proiettate immagini e didascalie. Una scena molto essenziale, definita dal regista stesso come una versione “semi-scenica” e che trova la sua forza principale nelle voci di due notevoli interpreti: Barbara Valmorin e Alvia Reale
La porta è qui una separazione innanzitutto mentale che le due attrici-personaggi inscenano continuamente. La loro vita scorre scandita dalla quotidianità di eventi contrastanti: la rigidità del tempo, la sorpresa di un piatto di biscotti, il timore di una malattia, l’inutile attesa, il conforto della scrittura; queste piccole cesure della vita vengono raccontate in una sorta di doppio soliloquio che a volte abbandona la narrazione del ricordo per entrare nel dialogo del presente. Le due donne riescono ad emergere dal flusso di parole, a tratti ricordate ma molto più spesso lette, avvolte da una voce piena di trasporto in grado di sostenere tanto i momenti più lirici quanto quella quotidianità dimessa ed eloquente che caratterizza tutto il romanzo. Un elogio delle piccole cose, dove non sono le grandi e potenti confessioni a colpire, i grandi fantasmi del passato, ma piccole frasi, alcuni sguardi nati quasi per caso che però manifestano quella complicità che quasi travalica l’attore per riversarsi felicemente nel personaggio.
E tuttavia manca qualcosa di sostanziale. La teatralità del mondo e del linguaggio della Szabò di cui pure attesta Massini nelle note di regia, non bastano a trasformare il palco in un luogo altro. La mancanza di coraggio nel condurre una ricerca più estesa con le due attrici – entrambe di valore ma come abbozzate nella forma – le relega in una sorta di limbo, in cui il lavoro appare in certi aspetti eccessivo perché si tratti di una semplice lettura, e in altri troppo esiguo, soprattutto nella cura e guida dei corpi delle attrici stranamente impacciati non appena abbandonano l’appiglio sicuro del leggio. Non si tratta del solito capriccio a voler far rientrare in categorie conosciute qualcosa che potrebbe stare non necessariamente in un unico posto, ma la mancanza di una direzione precisa vede l’operazione – nonostante la partenza del 2011 – ancora in uno stadio preparatorio, una prova all’italiana che ci lascia il piacere di osservare un lavoro in fieri, togliendoci tuttavia la possibilità di goderne appieno il risultato.
Un ulteriore aspetto che denuncia questa ambiguità tra forma e contenuto è evidente nelle videoproiezioni a cavallo tra una scena e l’altra. Didascalie al contrario nelle quali è l’immagine che spiegherebbe e sosterrebbe la parola, di volta in volta esse fungono da introduzione, da ponte temporale, allargando, esplicitando o fissando alcuni concetti. Scene di vita domestica ripetute a velocità accelerata si alternano a riprese più statiche, in cui ad esempio le mani di Emerenc su una tinozza d’alluminio introducono il suo personaggio ancor prima che esso appaia. Tuttavia la qualità amatoriale delle riprese non aiuta la comprensione di tale scelta, che forse vorrebbe puntare a quei momenti in cui viene introdotta una parentesi meta-teatrale dove la prova, e quindi il percorso delle attrici, acquisisce più valore rispetto al risultato stesso. Come si fa ancora certe volte a teatro, la neve può allora essere frammento di carta che viene gettato in scena da una mano visibile atta a svelare il trucco, le due attrici possono apparire su un palco riprese durante un momento di lavoro, eppure tale distanza apparentemente ridotta ci appare insormontabile, e tutto sommato slegata dalla storia di queste due donne.
Magda, nel tentativo di salvare Emerenc, finirà per rompere il patto tradendo la sua fiducia ed aprendo la porta, così che tutti i tesori, ci racconta, tutte le bellezze che le sembrava di aver visto all’interno, si tramutano immediatamente in polvere. «Si erano chiuse tutte le porte ora che quella era stata aperta». Forse qui, nel tentativo di lasciarne aperte troppe senza averne attraversata nessuna, il risultato sembra portarci allo stesso stallo.
Viviana Raciti
visto in Marzo 2013 presso il Teatro Vascello
LA PORTA
adattamento e regia Stefano Massini
tratto dal romanzo di Magda Szabò
con Alvia Reale e Barbara Valmorin
produzione TSI La fabbrica dell’Attore