“Materiale duro, fragile, trasparente o traslucido, che si ottiene fondendo ad altissima temperatura sabbia silicea con ossidi e carbonati; si lavora quando è ancora una massa fluida”. Allora verrebbe da dire che nessuna epigrafe o definizione meglio si adatta in effetti alla vitrea stimolazione di una serata primaverile trascorsa tra cortili, spazi, sale di teatro, peregrinazioni e percorsi che si ricompongono nell’ottica virale di una esperienza attraversata. Perché la percezione e la sua provocazione sono materia liquida che si compatta solo nella ricostruzione della visione, tra le pupille eccitate da input vividi, nei passi condotti da un’iridescenza all’altra. A dispetto della stanchezza, della comprensibilità, dei crucci quotidiani o dei pensieri del tempo ordinario un frangente, come frammenti di cristallo ricongiunti nella forma, prende corpo tra i momenti di sospensione del rigore giornaliero.
Così le prime schegge di Teatri di Vetro hanno accompagnato l’incedere della sua settima edizione tra differenti possibilità e modi di plasmare, imprimere un sentore. Installazioni, letture e ibridi tra happening e rappresentazione hanno composto un puzzle che non ha mancato di fornire strumenti di sondaggio dell’individualità estetica e sensibile. Ad abitare i corridoi di foyer del Palladium tre schermi per la Personale di Filippo Berta, cui è rispettivamente demandato di ospitare le registrazioni di Instructions for use, Allumettes e Déjà vu. Il trittico non necessariamente progressivo di performance segna un iter in cui l’autore indaga l’idea di trazione o più propriamente di tensione all’interno di azioni che restituiscono una sorta di metafora dello spirito umano costantemente attratto da forze oppositive, che tuttavia rischia di beneficiare troppo della deriva del “concettuale” artistico. Ma una struttura arteriosa è di per sé connaturata sulla diramazione e dunque la tappa successiva è accolta da uno dei chiostri della Garbatella che hanno contribuito a far da cifra distintiva della rassegna. Nel lotto 14 troviamo Synchronotopy, collage tessuto tra due tavole – una sonora e l’altra figurativa – in cui l’espressione nasce tra le immagini gestite da Daniele Villa e i suoni di Aleksandr Caric Zar. Trapela pure nondimeno tra ciò che avviene quasi per caso, o forse meglio per quel genere di necessità che non conosce ordine stabilito ,e in quanto vita, abita indomito il suo luogo di giacenza occasionale nelle voci alle finestre, sui bagliori in cielo, scivolando fra i voli di un gabbiano e le luci di un aereo diretto chissà dove. Liriche inattese si presentano invece a La Strada gli Accidentes Gloriosos di Giulio Stasi insieme a Rosabella Teatro, episodi più o meno autonomi sui temi della morte, della cessazione e della rinascita, sviluppati secondo una rarefazione fatta di linee di volti rimirati, silenzi pregni, e armonie pronunciate che scoprono l’ intensità della significanza quasi fosse una perla scovata all’angolo buio di una via stretta. In conclusione, sino agli inizi della notte conduce Las Vegas, lettura scenica a cura di Biancofango con cui Tobia Rossi ha vinto la quinta edizione del Bando Urgenze. Andrea Trapani e Paolo Leccisotto si fanno artefici di una vicenda, in verità non ancora particolarmente attraente, che è incontro di due margini: l’innocenza impensabile derivata dal disorientamento di un ragazzino alla ricerca del padre e l’appiattimento avvizzito eppur poroso di un adulto assuefatto alla ridondanza della relazione depauperata, in un tessuto urbano quasi irreale che però concede un attimo di esistita compenetrazione emozionale.
Marianna Masselli
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