Una fredda luce bagna appena gli innumerevoli scaffali di una scena nella quale tutto, dal grigio antracite del colore all’ingombrante moltitudine di libri, di oggetti, di mobili – tra i quali perfino un pianoforte – ogni cosa sembrerebbe schiacciare un’eventuale presenza umana. Ancor prima di rispondere a esigenze drammaturgiche, tale monumentalità rende riconoscibile un’impronta registica che si affida a territori conosciuti entro i quali esprimersi senza troppi salti nel buio. Eppure tale imponenza sembra ben corrispondere all’idea della claustrofobica esistenza di Fabrizio, protagonista de La trappola, novella pirandelliana che Gabriele Lavia sceglie di portare in scena curandone adattamento, regia e interpretazione. Presentato al Teatro Argentina, lo spettacolo era stato inserito in anteprima a conclusione della scorsa stagione dei Teatri di Cintura, l’ultima gestita dal Teatro di Roma.
La trappola, dai contenuti fortemente filosofici – esplicitati ancor di più in questa versione scenica attraverso rimandi a Nietzsche, Schopenhauer, Dostoevskij – presenta un uomo imbrigliato in una condizione le cui fila non riesce, non vuole o non può districare. Intrappolato in una casa talmente piena di roba da schermare l’ingresso della luce del sole, l’unica attività del signor Fabrizio ruota attorno a un vuoto ragionare sull’idea che l’intera vita, dalla nascita alla vecchiaia, sia una trappola la cui via d’uscita sarebbe la morte. Il padre, muta figura in sedia a rotelle che per due volte comparirà in scena, diventa quasi un monito per il protagonista, costretto, grazie alla sua presenza assente, a fare i conti con le proprie paure di morte e di sofferenza. È però il confronto con l’altro sesso a gettare maggiori scompigli: la donna in scena – misericordiosa macchinatrice dei propri piani – potrebbe anche essere un ricordo (il che giustificherebbe il registro interpretativo enfatizzato e lezioso di Giovanna Guida, assolutamente discordante rispetto alla colloquialità di Lavia), certo è che la sua presenza è in grado di minare alla base l’integrità misogina del protagonista che, come la volpe del proverbio, finirà per lamentarsi dell’acerbità dell’uva. Quel nichilismo di cui sopra sembra ridursi a un’avversione nei confronti della donna – «sono loro la trappola», ripeterà ossessivamente – demone tentatore che pur di raggiungere i propri scopi è in grado di ingannare, di tradire, perfino di morire come accadde alla madre che lo abbandonò appena nato. In un soliloquio a metà tra una seduta psicanalitica – di cui ritroviamo anche la tipica postura, con lui sdraiato su un divano a esternare il proprio ego – e il capriccio infantile, Lavia presenta quest’uomo inerte, la cui disperazione raggiunge i toni grotteschi del piagnisteo e dell’isteria, troppo vile per non cedere all’ambivalente tentazione del piacere né per portare a termine il gesto estremo attraverso cui trovare libertà.
Il tempo scenico, più che luogo d’ammissione al mal di vivere, diventa luogo del rimpianto. Ma tale inerzia, più che spiazzare con l’evidenza del proprio vuoto, è riempita dal “mestiere”, scegliendo la facile soluzione del parlare dell’inutilità delle azioni confezionando gesti fini a se stessi; il buio esistenziale dell’animo si traduce in un buio visivo, non vissuto, e alla luce di una candela la verità in scena non potrà che vacillare a ogni soffio. Sorretta dalla forza del testo – potente attrazione intellettuale – La trappola sembra non lasciare scampo, e si ritorce contro se stessa; adombrati dalla verità incontrovertibile delle profonde riflessioni filosofiche, i gesti non riescono ad acquisire reale significato: un libro cercato sugli alti scaffali, una breve sonata al piano, un pianto, qualsiasi azione non travalica la sua superficiale dimostrazione. La marsina stretta che si rompe ha già nella sua enunciazione di metafora una propria forza evocativa, di cui lo strappo in scena non fa che ripetere il senso letterale. L’unica operazione che si spinge oltre la materia già offerta dal testo sembrano essere i due spari che il protagonista dirige verso il padre e verso se stesso, ma ancora una volta l’azione, che avviene fuori scena, non acquista autonomia, e rimane solamente un’eco. Allora la modalità con cui si tenta di superare la comodità del racconto per comprovarne l’indipendenza finisce forse per apparire troppo debole.
Viviana Raciti
Visto in marzo 2013 presso il Teatro Argentina
LA TRAPPOLA
da Luigi Pirandello
adattamento e regia Gabriele Lavia
con Gabriele Lavia, Giovanna Guida e Riccardo Monitillo
scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
musiche Giordano Corapi
luci Giovanni Santolamazza
Produzione Teatro di Roma