C’è una foto un po’ sfocata, in bianco e nero, apparsa in mezzo a tante altre nei giorni della scomparsa di Rita Levi Montalcini, donna simbolo del Novecento italiano nel mondo: in una stanza in cui è riunito un consesso di premi Nobel per la medicina, compressa nel suo astringente abito nero, la scienziata che ebbe tale riconoscimento nel 1986 spicca in un gruppo a schiacciante maggioranza maschile come un’eccezione, un abito di diverso tessuto in un guardaroba seriale. Ma cos’è questo sentimento? Nessuna sorpresa per la sua presenza, quel che coglie è l’immagine concreta, tangibile di un’affermazione femminile di parità – di diritti prima, di valori poi. Il teatro ha vissuto simili processi, lungo la sua storia. Nella temperie sociale che accompagna il movimento femminista degli anni Settanta, ad esempio, di particolare importanza è l’esperienza del Teatro della Maddalena, fondato attorno al Pantheon di Roma nel 1973 da Dacia Maraini, Maricla Boggio, Lucia Poli e altre e dove l’attività artistica era gestita da sole donne. In quel clima si va affermando una nuova spinta propulsiva che si sarebbe concretizzata poi nelle successive battaglie civili.
Di fianco a quell’esperienza crescono allora nuove visioni, nuova coscienza che il pensiero femminile sia in grado di produrre e confrontarsi. Questo nuovo corso della ritrovata femminilità è il punto di partenza della successiva generazione che dalla Maddalena trae spunto, ma ne affina il segno. La rassegna romana Scena Sensibile, curata da Serena Grandicelli e giunta alla XVIII Edizione, nasce secondo questa genealogia ma presto si caratterizza per una ricerca improntata ad un femminile più metafisico, come non fosse più centrale la donna esclusivamente come soggetto ma ciò che, effondendo della sua essenza in termini di idee e creatività, giungesse a permeare il mondo contemporaneo. Fin dalla sua prima edizione nel 1995, al Teatro Argot Studio che ne è stata la casa per molte di queste occasioni, la Scena ha avuto il compito di esplorare l’universo femminile sia nel contemporaneo che nella storia, accogliendo l’inserimento di altre forme espressive come la pittura, la letteratura, in un disegno non privo di visione critica. Tra le parole chiave della rassegna ha un posto d’onore il corpo che, indagato fin dalle esperienze precedenti come un nuovo campo testuale, inizia ad allargare il suo senso alla psiche, allo spirito e spinge a un’esplorazione ancora più profonda. Questa maggiore intimità nasce quando, dopo aver preso coscienza del corpo, l’autoauscultazione genera creatività.
È dunque questo un passaggio fondamentale che appartiene all’evoluzione umana del mondo occidentale e che il teatro, attraverso indagini particolari, per una rifrazione irradiante rende universali. Pur avendo indagato un territorio che comprendeva anche la danza e altre forme d’arte, performative e non, il punto di passaggio fondamentale fu l’anno 2000, quando cioè prende il via un laboratorio di scrittura al femminile – con, tra le altre, Katia Ippaso e Tiziana Bergamaschi – ma coordinato da un uomo: il drammaturgo spagnolo José Sanchis Sinisterra. È forse quello il momento in cui la Scena prende coscienza del suo valore e inizia a produrre testi originali, cioè ad alimentare quella creatività che iniziasse a farsi veicolo del pensiero femminile verso un contesto generale. Quasi miracoloso allora che l’edizione di quest’anno dedicata ai miti al femminile – dal 4 al 24 marzo 2013 con tra le altre Ilaria Drago, Tamara Bartolini, Valentina Bischi – abbia per nome Eco di donne: emblema e suggello di questa vocazione.
Simone Nebbia
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Articolo pubblicato su Marzo 2013 de I Quaderni del Teatro di Roma. Per gentile concessione.