Odin Teatret, due parole che spalancano alla mente i battenti dell’immensità di un universo, che cifrano in lettere la traiettoria di un’avventura cercata perpetuamente alla frontiera tra l’umano e la sua rappresentazione. Un nome si lega alla sua definizione, nel pensiero intreccia i fili del ricamo come occhi di padre seguono l’evoluzione di una creatura nel tempo dei suoi attraversamenti. A questo altri nomi si annodano e diventano altri padri e altre madri, figli dei figli, sguardi lanciati nella terra in cui la paura di scovare, andando altrove solo per tornare all’origine, non esiste.
Eugenio Barba il regista, il pensatore, l’allievo e amico di Grotowski, il maestro, lo studioso, l’artefice primo dell’antropologia teatrale e infine la persona che, inseguendo la primigenia eternità del fondamentale, ha dato al teatro la propria impronta indelebile. Dopo tre anni trascorsi accanto al vate del Teatr Laboratorium, prima a Oslo e poi a Holstebro raccoglierà un gruppo di giovani attori rifiutati dalle accademie ufficiali, portando con sé i lasciti di quella formazione nell’importanza del training e nell’indagine sull’attore. Questo, nel 1964, l’inizio di una parabola divenuta in seguito officina inesauribile, conosciuta in tutto il mondo, segnata da scambi performativi, collaborazioni (da Etienne Decroux e Sanjucta Panigrahi fino a Dario Fo passando per Jaques Lecoq e Jean-Louis Barrault), baratti culturali e prestiti ideali, tutti indirizzati a una concezione dell’arte come esperienza empirica e costruiti sul principio di “apprendere ad apprendere”. Nel corso degli anni l’Odin ha continuato la sua strada in una precisa direzione, disegnando il Terzo Teatro nella protrazione, rimodellata di continuo, del preludio di partenza secondo cui per smuovere l’idea è necessario cominciare da zero e scavalcare la riforma per giungere alla ri-voluzione. E poi gli spettacoli nati da lavorazioni a volte lunghissime, frutti di un’assunzione di coscienza per cui spesso il processo è più importante del risultato, il quale tuttavia implica sempre una scelta di sguardo e una presa di posizione. A questo, accanto alla scena, si sono si sono innestate altre realtà, progetti collaterali di varia natura: l’ISTA (International School of Theatre Anthropology) fondata negli anni Ottanta, la casa editrice ODIN TEATRET FORLAG o la pedagogia del FARFA.
La compagnia o sarebbe meglio dire questa istituzione ormai, arriva nella capitale con una settimana riservatale dal 16 al 21 febbraio all’interno di Equilibrio, rassegna ospitata presso l’Auditorium Parco della Musica. Tra gli altri verrà proposto La vita cronica, opera dedicata alle scrittrici russe Anna Politkovskaya e Natalia Estemirova, impegnate per i diritti umani e uccise a causa delle loro posizioni nell’ambito del conflitto ceceno. Proiettato nel 2031, lo spettacolo è ambientato tra la Danimarca e altri paesi europei, articolandosi su una griglia che non manca di avvalersi del plurilinguismo per finalizzare il suo impianto strutturale e rivelare così ciò che forse appare ormai impensabile: «che una vittima valga, da sola, più di ogni valore. Più di Dio». Tra gli interpreti molti di quelli che caratterizzano la storia e il percorso di ricerca dell’ Odin: Roberta Carrieri e Julia Varley, per esempio, insieme, tra gli altri, a Elena Floris, Fausto Pro, Tage Larsen, Sofia Monsalve. Altro appuntamento sarà poi con L’eco del silenzio, esplorazione scenica tra gli interstizi di declinazione della voce in funzione del testo, tradotta per e sul palcoscenico dalla Varley (componente del gruppo dal 1976), condotta sino alle assi del Teatro Argot il 25 febbraio.
Guardare la storia incardinarsi al tempo presente, offrirsi la possibilità di aprire gli occhi aun mistero che, nella sua arcaica ed elementare semplicità, svela il proprio peso irrinunciabile: questo ha offerto il teatro a una comunità guidata dall’ottica di un individuo partito da lontano per arrivare ancora oltre. Questo è anche quello che l’Odin Teatret è destinato a consegnare in eredità ai suoi prolungamenti, ai semi che non ha smesso di coltivare.
Marianna Masselli