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Non si uccidono così anche i cavalli? Danza vitale della disperazione

Foto di Marco Caselli Nirmal

Anche al Teatro Argentina si smontano le poltrone. Non per la prima volta, la storica sala a ferro di cavallo viene dimezzata a favore di una scena in braccio al pubblico per Non si uccidono così anche i cavalli?, spettacolo che, in consonanza con i temi trattati e con la critica situazione teatrale attuale, vede assieme sul palco 26 performer, tra cui gli attori dell’Ensemble del Teatro Due di Parma, i danzatori-attori di Balletto Civile, entrambi coproduttori del progetto, e un quartetto di musicisti.

La storia – tratta dall’omonimo romanzo di Horace Mc Coy del 1935 – spaventosamente attuale nella sua essenza, racconta di una pratica in voga nell’America della Grande Depressione, secondo la quale coppie di giovani disperati partecipavano a una sorta di talent show ante litteram, ballando senza fermarsi per giorni – a volte settimane intere – fino allo sfinimento, nella speranza di essere gli ultimi a rimanere in piedi e di ottenere così un premio in denaro. Questa versione curata dalla regia di Gigi Dall’Aglio e dalle coreografie di Michela Lucenti, sceglie di evocare quell’intimità di certe balere attraverso pochi ma significativi elementi: una serie di lampioni tondi posti lungo il palco, degli striscioni con su scritti slogan incoraggianti, dei rudimentali lettini da ospedale, a fondo palco una porta e la postazione sopraelevata dei musicisti, con tanto di batteria e pianoforte. Lo spettacolo si dispiega come un’attenta alternanza tra l’ebbrezza gioiosa iniziale e la sempre più evidente stanchezza man mano che la maratona procede; tra movimenti danzati nei quali la musica può coscientemente imporsi sulle parole e scegliere cosa far sentire, e pause che lasciano affiorare maggiormente la vita delle undici coppie di concorrenti; il tutto scandito dal suono di un’inquietante e quanto mai appropriata sirena.

Foto di Marco Caselli Nirmal

Trascorsi i primi momenti di giocosa mescolanza tra sala e platea, tra scambi di battute dell’imbonitore a noi spettatori e la chiamata alla ribalta di personaggi seduti tra il pubblico – individuabili grazie ai costumi evocativi ma non esageratamente caratterizzati – si entra maggiormente nella logica dello spettacolo. Logica che in questo caso rimane giustamente frontale, nonostante la disposizione circolare di un pubblico che, negli sporadici casi in cui viene interpellato, rimanda a una risposta controllata e prevedibile, e che anzi non aggiunge molto a quel sentimento di partecipazione all’evento presente già per il solo fatto di esserne testimone. Si gioca a essere gli spettatori della maratona ma, per lo meno all’inizio, quando ancora non si è catturati dal ritmo, dalle danze e dai personaggi, si accetta questo ruolo non innocentemente, bensì coscienti della propria posizione. In questa stessa direzione leggiamo gli slogan attaccati ai vari palchi, che invitano a un’utopica salvezza dalla miseria proprio grazie alla partecipazione allo show, ma che dal nostro punto di vista letti in quel contesto non possono che apparire sotto una luce ironica. D’altro canto quegli stessi slogan anticipano una profonda riflessione su quella che sarà poi una delle problematiche più dibattute: su quanto lo spettacolo possa essere o diventare mercificazione di sé stesso. «Dance will get you free» recita uno dei più belli. Volutamente ambiguo nella sua interpretazione, lo spettacolo non si schiera da una parte o dall’altra, a favore del presentatore truffaldino o dei radicali anabattisti che vorrebbero interrompere la maratona a causa delle insostenibili condizioni di sfinimento a cui porta. È vero, tutto fa audience,: la maternità, i malviventi, i casi difficili, la morte, come in un reality perfino il cibo diventa un alimento spettacolarizzato. Uno dei momenti più significativi – e loro malgrado più divertenti – che chiariscono la posizione degli organizzatori della maratona, è durante una pausa dalle danze, nel cosiddetto gioco della corsa del topo. L’obiettivo dei concorrenti, a cui è stata momentaneamente concessa una maschera da topo, è di correre più velocemente possibile attorno al pubblico, al fine di conquistare un ulteriore premio di cinque dollari. Far la fine del topo, si dice. Tuttavia si rimane a giocare e le uniche posizioni che non si può fare a meno di comprendere sono quelle propriamente tragiche, delle vittime ignare e doppiamente gabbate – dalla crisi e dal sistema spettacolare corrotto: tre coppie sfiancate, barcollanti, quasi addormentate continuano a danzare dopo che tutte le altre, per fatica o per “scomodità” sono state fatte fuori.

Foto di Marco Caselli Nirmal

Un vero e proprio gioco al massacro, al di là del quale però riusciamo a osservare sprazzi di vita delle undici coppie di personaggi, tutte abilmente ritratte e mai lasciate nell’uniforme anonimato di un lavoro semplicemente corale. I movimenti di ciascuna coppia, identità duale e viva secondo propri schemi comportamentali, sono agiti con una grande armonia rispetto all’insieme; non si esegue un movimento identico, ma una stessa direzione attraversa le diverse fisicità degli artisti e il gruppo sembra avere un unico corpo. Già, perché la forza di questa messinscena, al di là della funzionale e per nulla statica orchestrazione, sta furbescamente racchiusa in una frase declamata dall’ambiguo imbonitore: «Se non lo riempiamo noi il teatro con la vita vera, con che lo riempiamo? Con le fiction?». In bocca a questo personaggio tale frase puzza quasi di bruciato – o di messinscena, come poi si scoprirà. Eppure, tralasciata la meta-teatralità e affrontata tale affermazione a un livello più profondo, la volontà di portare su una scena un momento di verità – tra i tanti fosse anche solo l’esempio del momento di riscaldamento iniziale, funzionale ai danzatori a livello tecnico, e ai personaggi a livello drammaturgico – è qui esigenza scenica primaria dall’impatto assolutamente efficace. Verità data non solo o non tanto nelle parole, quanto soprattutto nella relazione tra i personaggi, che grazie alla dimensione di coppia nello scambio reciproco diventano stimolo continuo a vivere il momento e non solo a interpretarlo.

Viviana Raciti

NON SI UCCIDONO COSÌ ANCHE I CAVALLI?
fondazione Teatro Due in collaborazione con Balletto Civile
regia Gigi Dall’Aglio
traduzione e adattamento Giorgio Mariuzzo
con Roberto Abbati, Alessandro Averone, Maurizio Camilli, Andrea Capaldi, Cristina Cattellani, Ambra Chiarello, Laura Cleri, Andrea Coppone, Paola De Crescenzo, Massimiliano Frascà, Francesco Gabrielli, Filippo Gessi, Luchino Giordana, Francesca Lombardo, Michela Lucenti, Luca Nucera, Massimiliano Sbarsi, Emanuela Serra, Giulia Spattini, Chiara Taviani, Nanni Tormen, Marcello Vazzoler, Chantal Viola

adattamento musicale / pianoforte Gianluca Pezzino
clarinetto / sax Paolo Panigari
contrabbasso Francesca Li Causi
batteria Gabriele Anversa
voce Carlo Massari

scrittura fisica Michela Lucenti
adattamento musicale Gianluca Pezzino
costumi Marzia Paparini
luci Luca Bronzo

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Viviana Raciti
Viviana Raciti
Viviana Raciti è studiosa e critica di arti performative. Dopo la laurea magistrale in Sapienza, consegue il Ph.D presso l'Università di Roma Tor Vergata sull'archivio di Franco Scaldati, ora da lei ordinato presso la Fondazione G. Cinismo di Venezia. Fa parte del comitato scientifico nuovoteatromadeinitaly.com ed è tra i curatori del Laterale Film Festival. Ha pubblicato saggi per Alma DL, Mimesi, Solfanelli, Titivillus, è cocuratrice per Masilio assieme a V. Valentini delle opere per il teatro di Scaldati. Dal 2012 è membro della rivista Teatro e Critica, scrivendo di danza e teatro, curando inoltre laboratori di visione in collaborazione con Festival e università. Dal 2021 è docente di Discipline Audiovisive presso la scuola secondaria di II grado.

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