Il carattere delle città dipende dall’ambiente in cui sorgono: Roma, per esempio, non s’è mai adeguata a specchiarsi di sfuggita in un fiume che scorre. Avrebbe forse preferito un lago, matrona com’è. E invece un fiume le tocca e allora si fa sfuggente anch’essa, produce e consuma, scivola via tra le anse fino al mare. Anche nel teatro va così, ma proprio per questo ci siamo noi: i pescatori di sassi da riportare a riva, evitare che un corso troppo violento li trascini senza che nessuno se ne sia accorto. Nel corso di un maestoso lungofiume, fatto di spettacoli Stabili, più che stabili: immobili, qualche sassolino è passato in questa Roma teatrale degli ultimi tempi, ora incagliato in qualche cavità nascosta di un piccolo teatro, ora strenuamente appeso agli spruzzi d’acqua nella pancia del letto, a volte quasi polveroso e nemmeno visibile mentre l’acqua lo travolge.
Ci siamo bagnati allora, con i calzoni tirati su, nelle acque romane per raccogliere i detriti lasciati dal Consorzio Ubusettete che nella sua antologica al Teatro Argot Studio, con spettacoli di Daniele Timpano, Andrea Cosentino, OlivieriRavelli_Teatro, Teatro Forsennato, Kataklisma, ha voluto festeggiare questi 10 anni di lavoro del gruppo aprendo su artisti più giovani o almeno in definizione della loro maturità artistica. Nella rinnovata sala del teatro romano nascosto in un condominio trasteverino è andato in scena Rebécca, monologo di Marco Andreoli (ex del Consorzio con Circo Bordeaux) che vede la scena per opera della coppia-compagnia formata da Monica Crotti e Massimo Cusato, artisticamente Teatro dei Dis-occupati già visti con Paolina qualche tempo fa. Qui la regia è femminile e pari l’interpretazione: Monica Crotti si carica su di sé un personaggio difficile uscito dalla penna di Andreoli che ha rintracciato uno dei casi clinici di L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello di Oliver Sacks, perimetra il palco nero con un esborso di luce molto contenuto, tenue atmosfera consapevole dell’umanità che porta in sé questo personaggio ammalato di vita, si direbbe, e che la rintraccia nei pochi oggetti rimasti a dirle cos’è, la vita: un cuscino, scarpe, una sedia, un’altalena, ogni elemento compone una stanza, un ambiente in cui rinnovare la propria necessità d’ascolto che si irrigidisce nella schizofrenia. Il testo di Andreoli, già ammirato per la sua geometria capace anche di sentimento, si trova a suo agio nel contesto scenico in cui l’attrice pone le sue parole, tra le quali si sgretola la sua indisciplina all’intimità, un disagio psichico non raccontato ma evocato dolcemente, quasi da non vedere più il bianco accecante del suo camice da paziente.
Si presentano già dispersi, sgretolati, i sassi del Nano Egidio, ensemble qui formato da Marco Ceccotti, Simona Oppedisano e Francesco Picciotti che nel foyer del teatro “disturbano” con piccoli frammenti spettacolari dedicati all’interazione con un pubblico divertito che ascolta le storie di teatranti smarriti nella loro ricerca di “fare” gli artisti, dimenticando di esserlo. Il Nano Egidio, nato da un incontro nell’ultima edizione del progetto Argotmentando e che ha attraversato gli angoli di molti teatrini romani, si pone come obiettivo quello di scardinare e prendere in giro certi meccanismi del sistema teatrale e lo fa con una certa brillantezza ancora forse non matura, ma che promette buone prospettive in termini di ricerca linguistica e ideativa. Per Luca Di Giovanni il discorso è invece diverso, la sua ricerca concretizzata in Tonight’s the Night affonda in un ambito circostanziato e ne trae spunti da dedicare alla realtà contemporanea, dimostrando forse il nostro asservimento a meccaniche di relazione antiche che solo i mezzi ci fanno declinare al presente. La sua “notte magica”, tratto da Le notti bianche di Dostoevskij, si affida a un monologo sudaticcio e adolescenziale quasi stucchevole, ma proprio tramite questo spostamento delle parole tratte dall’autore russo in una storia telematica che invece recupera certi stilemi della commedia sentimentale americana, riesce a creare uno scarto esilarante che svela ottime potenzialità. Solo in scena, con il cappuccio in testa dietro un tavolino, invaso da una luce notturna e pixelata, con gli occhi fissi sullo schermo di un Macbook, segue i movimenti di un contatto chat ignoto e già appassionato, svelandone il carattere posticcio e, infine, drammatico.
Requiem for Pinocchio invece l’abbiamo trovato nell’angolo stretto del Teatro Due, per voce idea e parole di Simone Perinelli/Leviedelfool. Pinocchio, il burattino creato da un padre amorevole con un pezzo di legno e che promuove suo figlio. Fin qui la conosciamo. Ma cosa c’è dopo? Da essere umano Pinocchio si trova coinvolto in un mondo difficile, in cui deve sopravvivere all’artificio, paradossale per chi era un burattino. Ma proprio burattino vorrebbe tornare. Una magliettina rossa e shorts grigi, in scarpe da ginnastica su una scena primaria senza nulla più di un’asta con microfono e un tavolaccio da lavoro: invettiva contro la modernità di un Pinocchio arrabbiato e cosciente dell’inadeguatezza cui la società lo sottopone, il testo scritto da Perinelli – con inserti da vari altri testi e uno particolare e citato da Emporium, poemetto di civile indignazione di Marco Onofrio – vive momenti drammaturgici di più fresca ispirazione e altri che scontano un eccessivo citazionismo ad affaticare e confondere la fruizione, rendendo lo spettacolo dispersivo e meno catalizzante. Tuttavia Perinelli – soprattutto rispetto al precedente Caligola – sta acquisendo maturità sia nella composizione che nell’occupazione dello spazio scenico, la sua vena critica instilla nelle intenzioni di Collodi il disagio contemporaneo e inchioda la trasformazione di Pinocchio come il funerale della civiltà che non sa più riconoscere la sua essenza: Requiem, in morte dell’umano ch’era nel burattino.
Fuori dall’acqua, in quale altro punto del fiume ci immergeremo? Già questa prossima settimana faremo un tuffo al Forte Fanfulla per Bim bum bang! di Elena Vanni (1-3), oppure al Furio Camillo per Col tempo di Clinica Mammut (31-1) e Un gioco divertente che non farò mai più di Nuove Officine Laboratorio Babs (2-3), pescheremo Soprattutto l’anguria nel laghetto di Massimiliano Civica che torna all’Argot (29-3), resteremo a pelo d’acqua fino al salto di qualcosa di interessante dalla nascente stagione del Teatro Tordinona. Questa è una stagione in cui bisogna bagnarsi, non molte le cose che sole giungeranno a riva, certe della loro rotta. Molte saranno sommerse, sovrastate da ettolitri di acqua in corsa. Pinne e bombolette d’aria, nella Roma di oggi, gli strumenti del critico.
Simone Nebbia