Resistente e interessante come pochi spazi romani sanno essere, il Teatro Argot presenta Maternity blues, nel quale quattro donne colpevoli d’infanticidio si trovano rinchiuse in un ospedale psichiatrico giudiziario per scontare ciascuna la propria colpa.
Elena Arvigo – qui regista ed attrice – sceglie di parlare di un argomento tanto delicato quanto attuale, e lo affronta da un lato seguendo la traccia di Grazia Verasani nel suo libro From Medea, dall’altro confrontandosi direttamente con le attrici attraverso delle improvvisazioni durante la fase di creazione dello spettacolo. Al di là di ogni giudizio, mediato dai giornali e dato in pasto alle masse, lo spazio rappresentato che si anima di bucce di mandarino da raccogliere, di lana, di addobbi kitsch, non è quello di un carcere; l’unico riferimento ravvisabile è forse nella temporalità ciclica – con scene che scorrono come i giorni necessariamente uguali di un luogo in cui la normalità quotidiana è negata e preclusa. Le quattro brande senza materasso testimoniano, confermando o svelando con la presenza di tanti piccoli elementi, i caratteri complessi e per nulla piatti delle quattro recluse. L’ordine meticoloso di Vincenza nasconde una profonda confusione e fragilità d’animo, il caos di maglie e lane dai colori sgargianti rivela una tenerezza nascosta dall’apparente aggressività di Eloisa, i tulle e pupazzetti parlano di una Rina troppo bambina per poter essere madre, mentre gli scatoloni e vestiti dai colori tenui dicono di una Marga incapace di opporsi ad una vita scelta per lei da altri.
L’indagine in scena si fa così simbolica e psicologica, scandagliando con i diversi caratteri delle quattro protagoniste gli effetti dello stesso tragico atto (tutte molto espressive ma non al pari della Arvigo che spicca per intensità e freschezza nell’interpretazione di un personaggio liminale quale quello di Eloisa). Tragico qui anche e soprattutto perché mette necessariamente a confronto ciascuna con la propria coscienza: «non va bene se dimentichi, siamo qui per ricordare, altrimenti saremmo in un qualsiasi carcere» afferma Rina alla nuova venuta. Sulla scena non c’è giudizio, non sono i “mostri” ad esser raccontati: la colpa di queste donne che hanno rifiutato il loro essere madri è nascosta come dalle coperte, portata alla luce da frasi spezzate, in brevi momenti, da piccoli oggetti che richiamano alla memoria – dei personaggi, delle attrici e di noi spettatori – l’effettiva “presenza-assenza” del reato commesso.
La Medea a cui si ispirava la Verasani, ancor prima che di un infanticidio parla delle difficoltà a relazionarsi con l’altro, il diverso per antonomasia; in questa dimensione chiusa l’unico elemento esterno – l’arrivo della quarta donna che tutto sommato non sconvolge l’equilibrio delle tre inizialmente presenti in scena – non può che risultare uguale a ciò che è già presente. Allora l’altro da sé si fa specchio, bersaglio su cui scaricare le proprie frustrazioni; il conflitto tra Vincenza ed Eloisa, rigore e sregolatezza, si traduce in una scena di grande impatto emotivo – tra le più forti di tutto lo spettacolo – in cui il senso di colpa aggredisce con la forza di uno schiaffo auto inflitto.
Se quindi la scommessa, che in generale appare riuscita, è quella di affrontare un argomento tanto delicato da esser preso dalla porta di servizio, raccontato secondo una poetica delle piccole cose, scandite dalla ciclicità giorno/notte, l’unico elemento la cui funzionalità appare oscura, e tutto sommato superflua è quello di una quinta velata, dietro la quale compaiono di tanto in tanto le protagoniste, in delle istantanee dal sapore melò. Che si tratti dell’espressione delle proprie paure, delle cose non dette, di risoluzioni insperate, queste finestre oniriche non aggiungono nulla alla scena, che anzi vibra di più nei momenti di sottrazione al caos materico e mentale di questo spaccato di vita.
Viviana Raciti
Visto al Teatro Argot Studio in dicembre 2012, in scena fino al 16 dicembre
MATERNITY BLUES (FROM MEDEA)
di Grazia Verasani
con Elena Arvigo, Sara Zoia, Elodie Treccani, Xhilda Lapardhaja
regia Elena Arvigo
scene Lorenza Indovina
luci Paolo Meglio