In certe occasioni occorre far abbassare la temperatura della stanza prima di entrarci, attendere che diminuisca il clamore intorno all’oggetto da discutere, con pazienza aspettare l’attimo fecondo per il pensiero. Così abbiamo fatto passare alcuni giorni – per alcuni di festa, per altri di rammarico – prima di tornare sull’argomento Ubu. Anche quest’anno i riconoscimenti più importanti del teatro italiano sono stati consegnati (vincitori): non è mio interesse in questa occasione rintracciare estetiche e mettere a confronto personaggi o scuole artistiche, proverei invece ad aprire una discussione sul futuro dei premi.
A quasi due anni dalla scomparsa di Franco Quadri bisogna sottolineare il lavoro svolto dalla neonata associazione Ubu per Franco Quadri nel preservare le iniziative e il patrimonio – storico, culturale ed editoriale – legati al nome del grande critico. Come osservatore privilegiato, in quanto critico teatrale e referendario ai Premi Ubu, penso sia giunto il tempo di tentare un rinnovamento che derivi da un insieme di proposte condivise e costruttive.
Dovremmo cominciare ponendoci una domanda: così come sono i Premi Ubu rappresentano realmente l’enorme ed eterogenea complessità a cui le arti sceniche sono giunte? Sono in grado di fotografare un orizzonte magmatico, denso, vivace e multiforme come quello che troviamo ogni giorno sui palcoscenici italiani? Probabilmente no, almeno non completamente. Dovremmo dunque chiederci se sia possibile rimodulare un progetto storico come quello creato da Franco Quadri rispetto a un contesto artistico, produttivo e sociale ormai completamente diverso. Ecco alcuni nodi che ci sembrano vitali per far sì che i Premi Ubu abbiano il valore e la funzione che meritano, sono idee e temi ormai da anni al centro del dibattito, rilanciati anche lo scorso anno dal collega Simone Nebbia (articolo).
Il ruolo dei critici referendari
Insieme alle pratiche artistiche, è mutata anche quelle del critico: sono pochi coloro che possono permettersi di affrontare trasferte lungo tutta la stagione teatrale per vedere i debutti più importanti, la maggior parte di noi programma i viaggi per l’estate quando, seguendo il “giro” dei festival, riesce ad assistere a più spettacoli nel tempo di pochi giorni. All’origine di queste nuove pratiche troviamo naturalmente una situazione economica e professionale sempre più intermittente e lontana dai centri di potere editoriali.
Il risultato di questa situazione è alla base della problematica che ogni anno mina la credibilità del Premio: neanche nel migliore dei mondi possibili ogni critico/giurato riuscirebbe ad assistere a tutti gli spettacoli prodotti nel Paese, ma il fatto che questo non avvenga neppure per gli spettacoli finalisti mette decisamente in crisi l’intero metodo di valutazione. Si finisce per non votare lo spettacolo che non si è visto oppure si sceglie di lasciarsi consigliare; in entrambi i casi il giudizio rischia di non essere espresso con totale autonomia perché anche l’astensione proviene non da un dubbio di coscienza, ma semplicemente dal venir meno dell’oggetto da valutare.
Progettare una festa del teatro, un momento di trasparente dibattito
Che si apra un tavolo progettuale per trovare le risorse economiche, i partner e gli spazi con i quali creare, in una tempistica di 2/3 anni, un modello chiaro e funzionale. Una strada percorribile potrebbe essere quella di relazionarsi con più soggetti produttivi nell’ottica di istituire delle giornate nelle quali spettatori e giurati possano assistere a tutte le opere finaliste, sarebbe una festa del teatro e un importante momento di riflessione per critici, studiosi e appassionati.
Le categorie obsolete
Le domande, chiaramente retoriche, con cui abbiamo cominciato questo scritto ci portano a riflettere sulla validità delle categorie che compongono il premio. In questo senso sembra anacronistico e ambiguo un premio alla miglior regia così come lo conosciamo. Cosa intendiamo con il termine regia? Possiamo pensare ancora alla regia come quell’attività che ha il compito di far confluire insieme tutte le pratiche e le professionalità del teatro dirigendole come si dirige un’orchestra? Che fine fanno le regie collettive oppure, al contrario, gli artisti che lavorano solo su se stessi? Che si apra quantomeno un dibattito.
Non possiamo poi relazionarci solo con il termine attore, reputiamo sia utile sostituirlo o affiancarlo con il termine performer. Riusciremmo così a far entrare nelle nostre riflessioni tutti quegli artisti della scena il cui percorso è in bilico tra le varie espressioni performative. Così come, in virtù degli stessi principi di evoluzione, le figure di attore/attrice protagonista e non protagonista risultano estremamente limitanti perché legate a un modello di teatro che è uno e uno solo dei tanti, legato a certe forme codificate, cui non tutti i lavori contemplati nella valutazione fanno riferimento.
Per un premio che stimoli il dibattito, che ci appassioni nonostante le diverse posizioni, che diventi trasparente e chiaro nei meccanismi – ché l’etica dovrebbe muoversi prima nei territori della cultura per sedimentarsi poi nel resto della società –, capace di andare oltre la mera funzione valutativa per tramutarsi invece in un momento in cui il teatro torna a essere centrale nella comunità. Per questi motivi affidiamo le nostre proposte – nate in seno a questa redazione nella speranza di accogliere ulteriori sostenitori, o chiunque volesse aprire un dialogo – all’Associazione Ubu Per Franco Quadri, attendendo una risposta che possa essere il primo passo di un nuovo percorso.
Andrea Pocosgnich
twitter @andreapox
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Gentile Andrea,
sono felice che un critico serio e competente come lei sollevi la questione. Molto spesso i candidati ai premi ubu rispecchiano anche le mie preferenze, i vincitori molto meno. Ho avuto modo di leggere alcune volte il Patalogo e le schede dei votanti, ed è evidente e quasi lapalissiano come esistano delle autentiche “cordate” per far vincere un progetto piuttosto che un altro. Caso evidente, quest’anno, la vittoria di Lucia Calamaro. Davvero il suo spettacolo è più valido a livello drammaturgico, di quello di Daniele Timpano? O piuttosto la cordata romana ha spinto per la “sua” drammaturga? mi risulta inoltre che il progetto sia stato candidato anche lo scorso anno. é corretto tutto questo? Sia ben chiaro che la mia non è una lettera di polemica, solo una richiesta di chiarimenti che rivolgo a lei e ai suoi colleghi referendari.
Rispetto al Premio dato alla Calamaro se non vado errato ci rientrava in quanto costituito da diversi debutti, è d’altronde uno spettacolo fiume. La mia opinione personale è che sia anche meritatissimo.
Per quello che riguarda le cordate è naturale che si formino (più che cordata parlerei di un legittimo scambio di opinioni), è anzi umano altrimenti rimarremmo isolati e questo è un mestiere che si basa sul confronto. Certo se poi il dialogo si trasforma in fazioni o addirittura in campanili c’è qualcosa che non va. Ma questo vedi dipende anche dall’onestà del singolo. Comunque proprio con la proposta di realizzare le finali come una rassegna aperta al pubblico risolveremmo molti di questi problemi.
grazie
a.
Punto cruciale, in questa prima edizione dei Premi curata dall’Associazione Ubu, è a mio avviso l’autoreferenzialità. Solo per fare un esempio, vincono almeno un paio di associati (perlomeno tra quelli resi pubblici dalla stessa associazione): Marco Martinelli e Saverio La Ruina.
Quadro quanto meno stridente e che ha un sapore di trasparenza grottesca.
Caro Andrea,
probabilmente mescolare attore e performer diventerebbe blasfemo. Ma sul discorso della regia sono d’accordo.
Certo capisco Lina, però si potrebbe almeno affiancare la categoria performer e/o danzatore
grazie
a.
Danzatori/performers ? Perché i danzatori hanno meno dignità degli attori o la loro arte è cosi fluida da poter essere confusa con quella di una qualsiasi performance ? Io creerei la categoria performer ma la terrei rigorosamente separata dalle altre. La vicinanza tra performance (e altre forme che negano il testo) e teatro, specie in un paese culturalmente anarchico come l’Italia, sta riuscendo nella meravigliosa impresa di distruggere quei piccoli germogli di teatro che nascevano dalla gioventù. Più rapido, più economico, più conformistico fare una performance/happening/installazione. E sia, ma non proteggere, distinguendolo, il lavoro inevitabilmente più laborioso di chi costruisce o rilegge una drammaturgia mi sembra quasi criminale. Buone feste!
ottimo anche così: tre categorie, attore, performer e danzatore, a ciascuno il suo. Il problema è cominciare a parlarne di questi cortocircuiti Giacomo, affrontare insomma il presente e i suoi nodi.
grazie
A. P.