Nel teatro di Danio Manfredini c’è un motivo ricorrente che attraversa la sua esperienza d’artista e che si scioglie con evidenza di fronte a qualsiasi spettatore: l’ostinata, assoluta organicità dell’opera, che mai confonde la sua presenza a farne mera rappresentazione e sfida continuamente l’io e lo stato dell’arte, muovendo le sue creature sceniche nell’estremo rigore estetico che affonda la radice pittorica dell’ispirazione. La vitalità virale che tiene sospeso il confine tra uomo e attore ha incontrato materie differenti, ma in cui ricorreva costante la chiamata alla tensione lirica e alla compromissione esistenziale all’arte: dal Pasolini de La vergogna (1990) al Jean Genet di Cinema Cielo (2003), per il Francis Bacon dei Tre studi per una crocifissione (1992), decretando infine il suo perentorio atto di dedizione Al presente (1997), in cui l’autoritratto si carica di una deformazione impetuosa che accoglie nella sua rabbia – in sé stesso – quella di altri autori, da Albert Camus a Georg Büchner.
Dopo tale percorso, è sorprendente scoprire Danio Manfredini alle prese per la prima volta con l’Amleto, testo classico per eccellenza. C’è uno strano doppio destino che lega i grandi artisti del teatro alle opere immortali con cui si misurano. Quando sentì la necessità di Amleto, con ogni probabilità non ebbe chiara l’entità dell’impresa né la vera missione cui egli era chiamato, ma radunò gli attori della sua compagnia perché di quell’esigenza si facessero apostoli, invasi della stessa fede in una materia, unico intimo fondamento – la fede – per tradirla e trasformarla. Il tempo di lavorazione è stato un lungo percorso buio, lasciando pertanto all’artista Manfredini, che della missione era responsabile, tutta l’opportunità di perdersi e trovare, di stancarsi e riafferrare energie, di graffiare senza scalfire e colpire fino ad abbattere questo nemico fraterno: un testo lontano più di quattrocento anni.
Il principe Amleto – che, dopo aver saltato il debutto per il sisma emiliano, ha abitato la scena del Teatro dei Rozzi per il nuovo Sienafestival – è uno spettacolo che deve ancora all’arte visiva l’impronta di nascita, disponendo in una scena in penombra richiami caravaggeschi che sviluppano in forma paradossale l’espressività corporea degli attori, con il volto coperto da maschere bianche. Già nel titolo, lo spettacolo ricava dalla storia del principe l’appellativo medesimo e, quindi, nell’egemone postura del nome proprio coglie ciò che egli è, ciò che relaziona Amleto con il suo contesto, la sua famiglia. Ma è poi all’aprirsi della scena e dopo averla cosparsa di allarmanti petali rossi da sotto il sipario che appare chiaramente il carattere notturno dell’opera e della visione, mescolando quell’atmosfera intessuta dalle luci di Luigi Biondi – dense come un tessuto opaco – e dalla preziosità dei costumi di Enzo Pirozzi e Irene Di Caprio, all’idea dominante (pur sopraffatta da tante classicheggianti versioni) di considerare Amleto un individuo sociale che, nell’apparente follia e nella contraddizione, non rinnega e non cela l’una e l’altra parte, l’umana e l’onirica, a farlo uomo. Ecco allora da una parte l’evasione dei corpi da scene ipertrofiche, evidente nella scelta di svolgere il monologo simbolo dell’opera o il dialogo tra Amleto e Ofelia in assenza dei protagonisti parlanti, dall’altra di nuovo la penetrazione organica del corpo nell’immagine, sontuosa esplicazione di ciò che sempre è teatro, concedendosi anche l’autocitazione iconografica di tre croci che vegliano assieme a Orazio nello spazio semibuio l’Amleto morente, a sottolineare nella sua condizione sacrificale quella cristologica d’artista, invaso ad un tempo di umano e divino.
L’intero spettacolo è una sorta di condanna a morte, autoinferta e per tramite il teatro. Già nel testo è lo stesso Amleto a servirsi degli attori, perché sia reso con esattezza d’artificio il misfatto che lo rende orfano, principe privo di re con un regno di cui non era il tempo. Allo stesso modo Danio Manfredini ha compiuto un’opera che eccelle proprio nel consegnare agli altri sei attori le parole giuste, come Amleto attraverso di lui le ha pronunciate: «in modo semplice e naturale» si fa carico del grande sforzo prodotto per vederli in scena e lo esplicita rintracciando, in sé stesso e negli attori che sanno sostenerlo, l’umanità di quel personaggio che non ha mai ceduto a diventare categoria, ineffabile enigma che ancora tiene salva la fisionomia dalla deformazione conservativa.
Lo scorso inverno, a metà di un percorso di cui ignorava la fine, lo stesso Manfredini raccontava turbato come avesse iniziato ad avere coscienza del fine da scovare nel testo proprio quando, durante una delle pause imposte dal travaglio produttivo, invece di un previsto ammutinamento si trovò a considerare un rinnovato atto di fede da parte degli attori. Probabilmente dunque è da quel momento che l’opera come è possibile vederla oggi, con il suo carico di visionaria appartenenza alle intenzioni shakespeariane, ha iniziato ad esistere nella mente dell’ideatore e assieme nel corpo dei suoi attori. Il corpo. È ancora Manfredini a definire la recitazione «un viaggio per calare dentro un corpo», un viaggio che l’anima compie a riprendersi ogni volta il posto che gli compete; soltanto così e grazie alla viscosità della presenza in luce, l’attore può farsi scena e non limitarsi ad interpretarne una, diventare presenza concreta, corpo che lascia penetrare nelle sue cavità le parole di un testo, i passi di un movimento, come il respiro fa con l’aria. L’attore di Manfredini dunque, nella maschera bianca di questo Amleto (di sua stessa costruzione), sceglie la purezza espressiva ed è così permeabile, svuotato di sé stesso è pronto per essere pervaso dalla sua funzione scenica, l’anima. Quindi per diventare – o tornare ad essere – il nuovo sé stesso.
Proprio Amleto, rivolgendosi alla Regina, dichiara fin dall’inizio «io ho dentro di me qualcosa che supera la possibilità di essere espresso», definendo così la sua presunta follia come una presa di coscienza dell’essere attore e – quindi – esclusivamente dell’essere uomo, perché si badi che «ogni esagerazione è affatto contraria ai fini dell’arte drammatica», dirà ancora. Danio Manfredini sublima questa coscienza facendone un manifesto che non filtra l’umoralità ma ne dispone l’uso drammaturgico, perché egli è più Amleto come regista, come ideatore d’artificio e responsabile di visione, piuttosto che come attore. Di tale artificio è infine coinvolto, alle conseguenze estreme di una morte in cui Amleto riconsegna la maschera e la congeda augurandole un buon riposo.
Ogni opera riguarda gli uomini che la attraversano, la cui naturalezza si misura ad ogni parola, azione, fatto scenico derivato dall’intenzione che gli concesse chi l’ha ideata. «Il teatro va fatto pericolosamente», ama dire spesso Danio Manfredini. E, dunque, cosa c’è di più pericoloso, traballante e magnifico che mescolare l’arte con la realtà?
Simone Nebbia
Articolo uscito su Novembre 2012 de I Quaderni del Teatro di Roma