La nostra scena contemporanea lotta contro una bulimia di sistema e di poetiche da molto prima che cominciasse la crisi della cultura. Per alcuni offrire formazione può significare anche trovare i mezzi per una resistenza. Sulla fitta mappa dell’offerta formativa della Capitale, impossibile da tracciare nello spazio di un semplice articolo, si intravede un percorso in grado di definire, attorno a questa pratica, un modello preciso. Dal 2008 al 2011 il Teatro Argot Studio promuoveva, con il finanziamento del Bando per i Piccoli Teatri del Comune di Roma, “Argotmentando”, un laboratorio gratuito per attori guidato ogni anno da un artista diverso (Gaetano Ventriglia, Roberto Latini/Ilaria Drago/Maurizio Panici, Andrea Cosentino), partecipando anche a incontri con altri artisti e critici. Nell’autunno 2011 al Teatro India veniva presentata Scuolaroma, una rete di artisti e gruppi locali di teatro e danza con lo scopo di dichiarare un’identità, di fissare un orizzonte nel panorama dell’offerta formativa romana per promuovere un’alternativa basata non sulla teoria, ma sulla prassi. La rete (ad oggi ancora virtuale) è espressione di uno spirito comune cui si rifanno diverse esperienze pregresse e successive. Nello spazio Kataklisma si svolge ormai da diversi anni “Katalab”, il percorso formativo diretto da Elvira Frosini con la collaborazione di Daniele Timpano, un atelier di formazione annuale in cui si ragiona sulla figura del performer, portatore di una visione autonoma e attiva del teatro e contrapposto al semplice attore/esecutore. Questo, come l’altro progetto di Kataklisma, “Ecce Performer”, in cui agli aspiranti performer si aggiungono aspiranti drammaturghi, è pensato come qualcosa di costantemente orientato alla presentazione di fronte a un pubblico, che è la vera chiusura del cerchio di ogni processo creativo.
Il più recente esperimento è “Percorsi Rialto”, nato da un’idea di Tamara Bartolini e Lucia Calamaro per unire all’esigenza della formazione quella della riattivazione di uno spazio che fu nevralgico per il teatro romano: il Rialto Santambrogio, chiuso nel 2009. Insieme anche a Federica Santoro, Tony Clifton Circus e Lisa Ferlazzo Natoli, qui si parla esplicitamente di «pratiche poetiche». Ottenuto dalla Provincia un quarto del finanziamento richiesto, la prospettiva di laboratori gratuiti è lontana; ma intanto il Rialto può tornare in attività, tra laboratori su temi specifici, lectio magistralis aperte e workshop intensivi.
A unire tutte queste esperienze non è solo una rete di conoscenze o la mera condivisione di un’area geografica, ma un comune approccio di fondo, principi di gestione che molto hanno a che vedere con la disciplina delle poetiche stesse.
Qui si immagina un’alternativa. Non qualcosa di contrario al convenzionale, ma – come da etimologia – qualcosa che indica un approccio altro, basato non più sull’insegnamento di una tecnica, ma sulla trasmissione di una prassi. La tangente nasce quando si comincia a considerare il passaggio di un vissuto artistico come qualcosa che è parte di quel vissuto stesso; si tratta di una curvatura nel concetto stesso di formazione, l’opportunità di considerare come formativa un’esperienza osservata nell’atto del suo svolgersi. In questo modo un percorso strutturato da un artista sulla base del proprio stesso linguaggio ammette l’attraversamento di una pratica che non è né vuole essere completamente formalizzata. Ciascun artista che si dedichi a questo tipo di formazione lo fa senza mettere in pausa il proprio percorso all’interno del sistema, quello stesso sistema che, accogliendolo, respingendolo, promuovendolo o dimenticandosi del suo lavoro, lo sottopone di fatto a un processo di crescita. E se fosse proprio quel processo di crescita, messo così a nudo, a farsi la camera di contenimento di un sapere pratico? Di certo il fatto che la prassi, mentre viene trasferita, sia a sua volta soggetta all’impulso di un cambiamento, che venga emanata da una creatività che continua a evolversi, consegna nelle mani di chi si forma una materia realmente viva.
Sergio Lo Gatto
Questo articolo è apparso sul numero Novembre 2012 dei Quaderni del Teatro di Roma