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Dondolare il corpo per contemplare

foto di Valerio Iacobini

Il teatro di Riccardo Caporossi, già Rem&Cap è un teatro d’autore. Questa definizione, che si è imposta nel cinema per distinguere le opere d’arte da quelle di intrattenimento commerciale, in teatro è meno diffusa. Va a segnare una zona della pratica teatrale che coincide con quella del nuovo teatro, un teatro emancipato dalla letteratura, ma scritto con i linguaggi della scena. L’ultimo spettacolo di Riccardo Caporossi, Mendel, ci offre l’opportunità di ritrovare, ben marcati, i tratti del suo essere un teatro d’autore, in cui cioè si inscrive la visione del mondo-teatro dell’autore, il suo daimon, il modo in cui egli modella le sue materie e forme espressive.

Non è il testo che rende riconoscibile lo spettacolo. Il teatro di Rem&Cap non si è confrontato sempre con un testo letterario, quanto con delle immagini, dei testi visivi di Riccardo Caporossi. Il breve racconto di Stefan Zweig Mendel dei libri è la fonte ispiratrice, la storia di un bibliomane che aveva eletto a propria dimora il tavolo di un caffè di una città europea prima della Grande Guerra, per vivere esclusivamente nei mondi contenuti nei libri, facendo dell’atto di lettura la principale ed esclusiva ragione della propria esistenza, nel tipico atteggiamento di dondolare il corpo per contemplare.

È  la drammaturgia dello spazio, allestito e fatto vivere dalla dinamica delle azioni che lo animano e lo trasformano lungo l’arco della durata dello spettacolo, disegnare il mondo-teatro di Mendel; uno spazio che si costruisce e ricostruisce, in divenire. La scena occupa la Sala 5 del Museo delle Arti del XXI Secolo (MAXXI) di Roma, un enorme rettangolo in cui gli spettatori si dispongono frontalmente lungo uno dei due lati lunghi: a sinistra è stato collocato un tavolo da biliardo utilizzato da due giocatori (intenso e incisivo il suono delle palle che si scontrano, rotolano, del gesso che i due giocatori strofinano sulle punte delle aste di biliardo), a destra un tavolo piccolo dove due giovani, un uomo e una donna, giocano tutto il tempo a scacchi. Un manichino con un paletot imbastito intorno a cui traffica con ago e filo la donna che ha conosciuto Mendel. Tanti libri, raggruppati in blocchi, all’inizio formano una croce,  diventano poi motori delle azioni dei sei giovani attori in veste di camerieri, mentre provano uno spettacolo che ha come tema la guerra; passandoli di mano in mano, trasformano i libri in sculture e in installazioni, andando a disegnare lo spazio.

Come il personaggio-mondo del racconto di Stefan Zweig viene trasfigurato dalla scrittura d’autore di Caporossi?

foto di Valerio Iacobini

Nello spazio non teatrale e difficilissimo da comporre in visione monodirezionale, avvengono scene in simultanea: il gioco del biliardo, il gioco degli scacchi, il lavoro silenzioso della donna che ha conosciuto Mendel, l’aggirarsi di Caporossi nelle sembianze di Solingo, nerovestito, quasi un sacerdote. L’entrare e uscire di scena di “figure esotiche” che fanno una breve apparizione, vengono accolte dai giovani camerieri, accettano da loro un bicchiere d’acqua e infilano un paio di scarpe, come atto rituale di accoglienza dello sconosciuto e di umiltà: un uomo che suona la fisarmonica, un uomo vestito da antico romano, un quasi barbone che dorme…

Lo spettacolo è intonato alla figura di Mendel, che offre sia il paesaggio sonoro e plastico – attraverso le musiche, gli oggetti, i disegni – sia il tono emotivo che riverbera echi e memorie di chi aveva conosciuto il personaggio. La custode della toilette, Daria Deflorian, è depositaria della memoria viva di Mendel, è lei che risponde alla domanda: che fine ha fatto Mendel? È morto, ma lei ne parla come se fosse vivo: «Studiava tutto il tempo, e il mondo restava fuori», osserva tra sé, mentre mangia una mela e cuce un paletot su un manichino, dalle cui tasche fanno capolino dei libri, spolvera il tavolo dove era solito sedere Mendel al Bar.

Protagonista dunque un personaggio in absentia, ed è questo tratto che entra profondamente in sintonia con il teatro-mondo di Rem&Cap, abitato da fantasmi, ombre, fagotti, tracce di esistenze non più incarnate. A partire dallo spettacolo Rem & Cap (1988) appaiono infatti in scena due figure prive di corpo, con il cappello calato sulla testa a nascondere il volto, uniti da una sciarpa e da un bastone da passeggio. Ed è questo il tratto che distingue il teatro di Rem&Cap, la dinamica dalla presenza all’assenza , di cui emblema e icona sono fagotti, scarpe, cappelli, abiti, oggetti appartenuti a persone viventi che non ci sono più. Come anche i fantasmi, ombre che la luce proietta su una parete per dileguarsi, composte immagini della morte che popola la scena con leggerezza. E allora la cifra autoriale del teatro di Rem&Cap è la straordinaria capacità di rappresentare con immagini pregnanti, soggetti irrappresentabili: la morte, la guerra, la violenza del potere.

foto di Valerio Iacobini

I giovanissimi attori non professionisti addestrati da Caporossi durante la fase di laboratorio – allestimento dello spettacolo –  secondo una prassi produttiva consolidata, inscrivono una lieve dimensione autoriflessiva, provano uno spettacolo che ha come tema la guerra: strisciano come se fossero in trincea, avanzando lentamente trascinati da un libro aperto legato a un filo di lana rossa di un gomitolo che si srotola (altro oggetto icona del teatro di Rem&Cap) da cui ciascuno legge lettere di soldati sul punto di morte. Un giovane soldato è morto.

Ospite speciale, Patrizia Sacchi che viene introdotta in scena da “spettatore”, issata su un carrello con leggio da dove intona il manifesto di Buchner del 1834 , il Proclama del Messaggero d’Assia (per il quale, all’epoca fu arrestato) che elenca, quasi un reportage statistico, cifre relative alla sperequazione economica e all’ingiustizia fra le classi sociali dominanti e dominate.

Lo spettacolo funziona anche come archivio del teatro di Rem&Cap, nel senso che rimette in circolo tracce di precedenti spettacoli: la  voce registrata di Claudio Remondi (da un Beckett) è un esempio, la scena in cui Caporossi con leggio e testo, spogliato dal costume di Solingo, recita e canta la canzoncina sul potere che seduce, è una citazione, un reperto . Così pure Solingo che, percorrendo lentamente lo spazio scenico, si aggira, si ferma, guarda arriva in silenzio, accende una candela sul tavolo di Mendel dove ci sono i resti di una cena…

Riporto quanto scrive Riccardo Caporossi: «Solingo è apparso con lo spettacolo Scarto (2007) e da quel momento l’ho considerato una mia “maschera” dopo Rem & Cap. È una presenza che ho inserito anche in Dolore Perfetto, Sotto l’ombrello Accanto al bastone e Ineffabile. Sono state brevi apparizioni; in Mendel l’ho lasciato libero di muoversi tra immobilità di concentrazione e provocatore di situazioni. Chissà che un giorno non lo renda protagonista da solo – ogni tanto ci prova a suggerirmelo».

Alla fine si apparecchia la tavola e tutti scompaiono e, nonostante il signor Z (Vincenzo Preziosa) nel ruolo di narratore offra un piano discorsivo lineare, oggettivo, storico, la figura di Mendel si staglia nella fragranza del suo essere ombra e fantasma, di incarnare più voci e più corpi.

Valentina Valentini

visto al Maxxi, 19 – 21 ottobre 2012

Mendel
Scrittura scenica Riccardo Caporossi
Produzione Club Teatro Rem & Cap Proposte
Con Daria Deflorian, Vincenzo Preziosa, Riccardo Caporossi e Andrea Cardinali, Alessandro Caruso, Emiliano Marini, Giada Oliva, Lorenzo Salandri, Raffaele Vermiglio, 2 giocatori di biliardo, 2 giocatori di scacchi, 6 persone-personaggi;
Luci Nuccio Marino

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