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Atlante XXIV – Il pranzo della domenica

Sembra un ottimo ragù… invece è chili con carne. – foto di Sergio Lo Gatto

Un tranquillo pranzo della domenica, servito sulla tavola di tutte le famiglie italiane. Una volta si ritornava dai quartieri per il sugo domenicale della nonna prima e della mamma poi, una sorta di lascito generazionale culinario che non ha mai conosciuto crisi e che ha continuato a bollire a ogni cambio di governo e a ogni impennata dello spread. Oggi che probabilmente la dieta contemporanea ha variato ingredienti e corpo delle pietanze, sedersi a quella stessa tavola avrà lo stesso sapore? Tutto ebbe origine con la trasformazione di quel salotto in cui discorrere e far di conto alle attività familiari, quindi un luogo di produzione culturale conforme alla genesi tribale della nostra contemporaneità, in un luogo di ricezione, un’antenna amplificata per accogliere le immagini e i suoni – e quindi le urla e i bisbiglii – di quell’altro salotto in trasmissione perenne delle sue attività replicanti che è la televisione.

Tale trasformazione dall’artigianato del pensiero alla catena di montaggio, che sappiamo avvenuta con maggiore chiarezza negli ultimi tre decenni, ha prodotto grandi risultati nell’annientamento delle vitalità culturali, al punto da trasferire la produzione nel luogo altrove, quello dentro lo schermo per intenderci, lasciando di rimando al salotto tribale l’esclusivo compito di accettare e aderire. Ma cosa e come si cucina ai fornelli del nuovo pranzo italiano? A quell’ora il fuoco, lento, è quello dei telegiornali, contenitori in plastica di pietanze cucinate al mattino, trasportate e scaldate poco prima del servizio. Al momento di portare in tavola però iniziano quelle differenti articolazioni del gusto, per ognuno il piatto che preferisce: primari che fanno le primarie e primati che gareggiano per il primato, omicidi catastrofi e tragedie, un goccio d’olio ce lo mettono le espressioni e il tono dei presentatori e il grosso è già nel piatto. Mentre la famiglia ingoia e deglutisce in sovrumano silenzio (ma meglio sarebbe dire non umano), su ognuno dei lati della tavola le loro menti stanno assorbendo precotti e surgelati che conserveranno fino al momento della necessità, quando andranno di fretta e dovranno tirar fuori la prima cosa dal frigo, quando avranno ospiti e si fideranno di una confezione dimenticata in dispensa. Quando cioè, in ogni caso, dovranno prendere una posizione formata e bilanciarla alle misure altrui, troveranno in sé quanto conservato per le occasioni: prenderanno una delle posizioni politiche gentilmente offerte dagli sponsor dell’informazione televisiva, discuteranno di crimini e violenze sempre a distanza di sicurezza dal proprio coinvolgimento.

Ma si sa, un pranzo della domenica che rispetti le proprie credenziali deve proseguire anche oltre un’alimentazione corretta e andarsi ad avventurare tra i generi voluttuari, momento del banchetto dove stabilmente ormai s’è relegata pratica e teoria del discorso, ossia la proposta culturale. Si attende: all’ora della frutta ecco arrivare in tavola un pettegolezzo di principi e reali, per dolce c’è lo sport dei megacontratti guarda un po’ televisivi, tocca poi al caffè dove inzupperemo quel che resta della nostra attenzione, in quella tostatura indigeribile che è la “promozione ai programmi della rete”. E dunque? Non manca qualcosa? Niente paura, a volte l’ammazzacaffè lo offre addirittura la casa! E allora ce n’è di programmi culturali… questa domenica per esempio, nel pranzo di una famiglia tra le tante, ecco cosa hanno portato in tavola: la rubrica degli appuntamenti del Tg3 Regione (qui è del Lazio) come ogni giorno non lesina sagre della porchetta in ogni buco di provincia con qualche breve concessione alla musica di alto rango, mentre al Tg1 è il giorno del sospirato Billy, settimanale in fondo a tutto che si occupa di libri, ma di quali libri? Ovviamente quelli su cui gli editori puntano per il grande pubblico, in questo caso l’evasione di un romanzo presunto sentimentale e l’ennesimo thriller a sfondo medievale. In entrambi gli esempi dunque lo stesso modo di intendere il lavoro culturale: produzione per la vendita di manufatti cui la società di massa ha già decretato successo, solo allora se ne potrà parlare riducendo la letteratura di millenni a questo stitico dibattito autoriferito.

Ma questo mestiere non si faceva con coraggio? Se siamo relegati in fondo, se nessuno si accorgerebbe del contrario, se ancora è la passione a governare le azioni, perché non ci si prende il rischio di una proposta fuori da questo schema? Il pranzo è finito, ora è il momento del digestivo. Amaro, molto amaro.

Simone Nebbia

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