Una poltrona, un poggiapiedi, una lampada da salotto, un tavolino che ospita tutto l’occorrente per la sopravvivenza del solitario: sigarette, posacenere, bottiglia di whisky, candele profumate, un libro e uno stereo. Con il suo irresistibile e cereo aplomb, vestito di pigiama e pantofole Diego Sepe prepara tutto come il più delicato dei rituali e si accomoda al suo posto, pronto – si direbbe – a trascorrere così l’ennesima serata. A cambiare i programmi è il sopraggiungere del fratello (Luca Zacchini), topo di città giunto nella sonnolenta campagna a comunicare il decesso del padre. Ma in questo suo lungo soliloquio niente è come sembra e addirittura una morte può trasformarsi in una fuga mistica in India finita in una «trance metapsichica».
Presentato nello Spazio Pandolfi del Teatro Argentina per il programma di Romaeuropa, Soprattutto l’anguria, spettacolo con cui la penna di Armando Pirozzi incontra nuovamente la regia di Massimiliano Civica, è innanzitutto questo: un fine gioco di soppressione della realtà. Il fiume di parole, che Zacchini sostiene con sorprendente controllo, ipnotizza quasi lo spettatore; la presenza totalmente muta di Sepe – usata da Pirozzi come elemento drammaturgico che offre la sponda all’incomunicabilità di certi temi – serve a Civica come muro di gomma visivo in cui affondare gli occhi degli spettatori. Mentre il racconto ipertrofico si snoda tra digressioni, parentesi e fendenti di pensiero, il consueto rigore cui il regista ci ha in questi anni abituato cerca e costruisce in scena un equilibrio formale che metta in luce i nodi più tesi del testo.
Nella drammaturgia di Pirozzi, che scorre con grande ritmo tra le maglie di una lingua matura e variopinta, non tutto sembra però dosato al millimetro; il dispositivo che – con la schizofrenia sintattica del monologo – somma piano a piano fino a creare una torre di vicende raccontate in grado di allontanare e annullare ogni realtà effettiva, pecca forse di uno spirito eccessivamente letterario. Quando la struttura ci avvicina allo svelamento, restiamo fin troppo soli nel tentativo di interpretare l’epilogo e la confessione che il fratello mastica tra i denti fin dal suo ingresso in scena collassa in un ulteriore eccesso stilistico: l’emozione e la commozione che la accompagnano sono una volta di più, per scelta del testo e della regia, “non vere”. Proprio dove forse la nostra fame di chiarezza aveva raggiunto il limite.
A tenere in piedi la messinscena di questo lavoro, nella sua minimalità, è di certo l’esemplare attenzione degli (e agli) attori: il grande peso scenico di uno e la muta complessità dell’altro invitano Civica a ragionare sugli spazi, sulla prossimità dei corpi, dando così voce alle stilettate di Pirozzi sulla freddezza di tutti i non detti di una famiglia disgregata. Forti e non scontati sono i grotteschi riferimenti del testo alle spiritualità preconfezionate e il fatto che il corpo del padre stia per essere rimpatriato in un frigorifero lascia il segno stilizzato di una disarmante glacialità. Che è poi il luogo in cui vanno a riposare tanti ragionamenti sul confronto tra la generazione anni Sessanta e quella immediatamente successiva, così irrimediabilmente autistico.
Sergio Lo Gatto
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visto il 14 ottobre 2012 al Teatro Argentina – Spazio Pandolfi
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SOPRATTUTTO L’ANGURIA
di Armando Pirozzi
uno spettacolo di Massimiliano Civica
con Diego Sepe, Luca Zacchini
impianto illuminotecnico a cura di Gianni Staropoli