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Sempre più Giù il mondo di Scimone e Sframeli

foto di Andrea Coclite

I luoghi non esistono senza gli uomini che ci passano attraverso. Accade così che un luogo-mondo possa rappresentare segni opposti quando diversa è l’entità della presenza e differente la condizione esistenziale, nello stesso tempo luogo per la sofferenza senza argini e insieme per l’esercizio dell’indifferenza. Si prenda una stanza da bagno, ad esempio, che secondo le esigenze può assolvere diversi servizi: per chi ha necessità fisiologiche da espletare e liberare il proprio stato fisico ha finalità materiali e quindi urgenti, improrogabili, per chi invece ha necessità soltanto estetiche (dal semplice lavaggio giornaliero fino al trucco) assume caratteri esteriori e superflui, occupandolo di certo fuori da uno stato di emergenza. Questa l’immagine e il concetto alla base del nuovo spettacolo firmato dalla penna di Spiro Scimone e la regia di Francesco Sframeli, che in un enorme water a centro scena misurano lo stato civile di questo paese e scelgono l’emblematico inconfondibile titolo Giù.

Il Figlio, immerso nel liquame invisibile se non dall’interno, dialoga con il Papà che nello stesso luogo, rilassato e nell’apparente indifferenza, di fronte allo specchio si rade la barba. La loro relazione è subito immediatamente spostata sul piano metaforico, quando da quel limite l’uno chiede il motivo del suo misero stato che l’altro ignora, o finge di ignorare; proprio a questo punto iniziano a salire dal basso – a turno – gli altri due personaggi immersi nei fondali oscuri: Don Carlo, un prete sospeso tra la difesa di valori originari e la connivenza con la depravazione secolare, e Il Sagrestano, servitore della Chiesa e vittima della sua viziosa immoralità (con Scimone e Sframeli sono, bravissimi, Salvatore Arena e Gianluca Cesale). Due argomenti autonomi, dunque, la difficile eredità generazionale e la decadenza dello spirito religioso, ma in entrambi lo stesso senso di perdita, di distanza dall’appartenenza umana che a questi temi dà origine e che un’evoluzione degradante ha tradito.

foto di Andrea coclite

Tre pareti a favore di scena, immerse in una luce che vira verso l’ocra terreo colore di zolfo e solo una finestra, chiusa, li separa dal mondo. Qui – come altrove – gli echi beckettiani (inutile citare la finestra di Finale di partita) sono assai facilmente ravvisabili e tradotti in un carattere di novella che svela invece le origini siciliane – e pirandelliane – dei due artisti. Anche la struttura dialogica (interessante notare come questo linguaggio artistico produca buone prospettive in progetti alti come quelli che furono di Ciprì e Maresco così come in quelli di nuovi promettenti comici, vedi ad esempio Maccio Capatonda) segue dunque una partitura ritmica cadenzata e uno schema geometrico ben definito, affondando ogni battuta e dipingendo di toni grotteschi le relazioni tra gli attori. La cruda critica sociale da cui prendono le mosse drammaturgia e resa scenica (di espressività fiorente, fresca e capace di veicolare con godibilità i termini dell’allegoria) sembra ancora una volta mitigata e più debole la sua gittata, soprattutto pensando alla grandezza degli spettacoli che hanno reso celebre la compagnia in tutta Europa, come La Festa, Bar o Il Cortile. Come nel precedente Pali, spettacolo che già si riferiva a una condizione ignobile appena appena salvi sopra la superficie dei liquami, la sensazione è di un lavoro ancora indebolito dall’elusività ideologica più che strutturale, svelando quanto meglio questo sodalizio artistico riesca in una composizione che sviluppi certi elementi tratti dal particolare, dal piccolo e noto, piuttosto che in questi affondi retorici di promessa universalità.

foto di Andrea Coclite

Dalla superficie dell’ovale, luogo di confine tra la comprensione e l’oblio, tutti i personaggi lanciano le loro opportune lamentazioni a un mondo che li ha traditi e che non li ascolta, chiusa è la finestra che da esso li separa come chiusi appaiono gli spazi di confronto che rilancino una visione propositiva: si stagna nel cesso e si risale soltanto per lamentarsi, nulla nasce dalla fogna se non una riproduzione spontanea della stessa. Ma davvero non c’è altro che accettare di essere sommersi? Davvero nessun fermento sta covando altrove per una nuova sorprendente germinazione? Si apre la finestra, alla fine, da dove la voce del personaggio fuori campo Ugo fa entrare, con una dolce canzone, la sua boccata d’aria: i personaggi sono tornati tutti sul fondo, incapaci di respirarla. L’unica speranza, a questo punto, è che quella folata come vento inatteso colpisca sul viso, gli spettatori plaudenti di questo spettacolo.

Simone Nebbia

in scena dal 18 al 21 ottobre 2012
Teatro Argentina [cartellone 2012/2012] Roma

GIU’
di > spiro scimone
con > francesco sframeli > spiro scimone >
gianluca cesale > salvatore arena
regia > francesco sframeli
scena > lino fiorito
disegno luci > beatrice ficalbi
regista assistente > roberto bonaventura
foto di scena > andrea coclite
direttore tecnico > santo pinizzotto
amministrazione > giovanni scimone
organizzazione > cadmo associazione – roma
produzione > compagnia scimone sframeli >
festival delle colline torinesi, théâtre garonne toulouse

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Simone Nebbia
Simone Nebbia
Professore di scuola media e scrittore. Animatore di Teatro e Critica fin dai primi mesi, collabora con Radio Onda Rossa e ha fatto parte parte della redazione de "I Quaderni del Teatro di Roma", periodico mensile diretto da Attilio Scarpellini. Nel 2013 è co-autore del volume "Il declino del teatro di regia" (Editoria & Spettacolo, di Franco Cordelli, a cura di Andrea Cortellessa); ha collaborato con il programma di "Rai Scuola Terza Pagina". Uscito a dicembre 2013 per l'editore Titivillus il volume "Teatro Studio Krypton. Trent'anni di solitudine". Suoi testi sono apparsi su numerosi periodici e raccolte saggistiche. È, quando può, un cantautore. Nel 2021 ha pubblicato il romanzo Rosso Antico (Giulio Perrone Editore)

2 COMMENTS

  1. E’ vero che in “Giù” si rischia spesso di scadere nella retorica, ma la scrittura di Scimone, l’uso sapiente della lingua, l’equilibrio tra parte “alta” e grottesco riescono, a mio avviso, a veicolare emozioni generali anche se, per alcuni, facili o scontate. Del resto, il duo siciliano doveva comunque uscire dalla dimensione particolare, dal bozzettismo per intraprendere una strada diversa, anche se i vertici della “Festa” o di “Nunzio” resteranno probabilmente non replicati. Dovrà ora aprirsi una terza fase di ricerca, indirizzata verso nuovi sviluppi strutturali e drammaturgici, ed è facile prevedere che sarà la più difficile e complicata.

  2. Gentile Paolo,
    ti ringrazio per questo commento perché mi dà la possibilità di dire ciò che in una recensione non si dice, ma che appartiene all’animo di chi scrive e che quindi in un commento, in fondo privato della necessaria autorevolezza che invece dobbiamo a una scrittura critica, possiamo permetterci di esprimere.
    Da amante del loro teatro, ho avuto grande difficoltà a fare un discorso che invece ritenevo giusto e opportuno sul percorso, sulla piega che stava prendendo la direzione artistica di questi ultimi lavori. Ammetto, come tu dici, le grandi qualità e che fosse giunto il momento di voltare pagina, ma non potevo tacere il volo più basso di queste nuove ali, solo e proprio perché ho tanto apprezzato le altezze dei voli precedenti. Questa è l’unica cosa che ci permette, maturando da scriventi, di ragguagliare chi legge circa un percorso e tracciare linee di comprensione.
    Attendo anch’io una fase in cui segni nuovi mi sorprendano di una invece rinnovata possibilità.
    Ma dico qui e non nell’articolo che io senza Scimone e Sframeli sarei uno spettatore teatrale mancante, perché anche a loro devo parte della passione che metto in questo mestiere.

    Grazie di questa lettura e del ritorno a te, al tuo sguardo. La scrittura.
    Simone

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