In occasione del Festival Ipercorpo di Forlì, intitolato quest’anno Articolo 1, abbiamo intervistato Fiorenza Menni di Teatrino Clandestino per conoscere meglio il suo progetto Civile, realizzato in collaborazione con altri attori e presentato all’interno dell’Ex-Deposito dell’ATR
Come è nato il progetto Civile?
All’origine di Civile c’è il mio grande interesse per chi sceglie di essere attore. Mi piace molto poter osservare e presentire le potenzialità; non parlo di attenzione per le eventuali attitudini, ma di attrattiva per le proposte formali a me non note.
Per alcuni anni mi sono intensamente dedicata alla formazione, con la tendenza a sollecitare le persone che ho incontrato verso la creazione di una visione autonoma ed una personale idea d’attore. Nella formazione questo per me è fondamentale, nell’essere attore anche: preferisco gli attori che inseguono una propria intenzione estetica, anche quando sono parte e contribuiscono ad un componimento altrui.
Così, in un periodo in cui stavo facendo molti laboratori in giro per l’Italia sulla plausibilità del dialogo – con riferimento al criterio dialogico di Ibsen – ciò che più trovavo problematico era il risultato vocale: i dialoghi troppo spesso venivano sostenuti da toni e timbri falsati, irreali, ma non volevo, in quel momento, tentare la risoluzione attraverso un approfondimento della tecnica vocale. Era necessario che gli attori parlassero con le loro voci vere, quelle che avevo sentito poco prima di cominciare a lavorare, dovevo trovare un modo veloce per permettere loro di riappropriarsi e stare attaccati a quella voce. Iniziai così a farli lavorare in modo intermittente, interrompendoli con domande molto semplici sulla loro vita: nel rispondere spostavano l’attenzione verso se stessi e la voce tornava plausibile, reale, e più le domande erano inerenti al proprio vissuto più risultava efficace la correzione vocale. In questo modo, ponendo domande del tipo “che fai?”, “che vorresti fare?”, “come?” e “perché?” mi sono trovata davanti a decine di giovani cittadini che illustravano il proprio progetto di vita nell’arte.
Come si articola il progetto?
Ascoltando decine di ragazzi tra i 20 e 30 anni che, con una consapevolezza maggiore o minore, stavano tentando di operare una scelta di vita che per me ha qualcosa di profondamente politico, ho iniziato a cercare di ricostruire la genesi di quel desiderio nella loro biografia: quando e in che modo quella intenzione era nata.
Mi sono trovata di fronte ad un materiale molto vivo, empatico, perché è raro incontrare un umano che non conosca questi bivi. Per dare il via al progetto, ho inizialmente coinvolto alcuni tra gli attori con cui ho maggiormente collaborato, attori che sento vicini, e che stimo molto. Civile possiede una qualità parassita che mi interessa molto: mi piace l’idea di appoggiare i pezzi di Civile nelle orecchie, nelle menti, negli occhi del pubblico che si reca a teatro per vedere un determinato altro spettacolo e entrando, spesso a sua insaputa, incontra Civile. E poi sale d’aspetto, aule universitarie, convegni: questi i luoghi dove è presente Civile. Per questo i pezzi hanno una breve durata. Civile non è un dietro le quinte svelato, ma un intervento sulla linearità dello spettatore. Nella stagione 2010/2011 abbiamo creato insieme a Elena Di Gioia una serie di interventi di Civile a Bologna, in collaborazione con quasi tutti i teatri della città; in maniera virale per il pubblico, senza presentazioni specifiche. Poi il progetto si è ampliato e attualmente viene presentato anche come uno spettacolo, ma l’anima virale desidero mantenerla. Con la più giovane delle attrici stiamo tramando perché lei possa partecipare ad alcune selezioni per le scuole di teatro con il suo Civile, senza ovviamente annunciarlo…e non è suo scopo frequentare la scuola!
Pensi di poter replicare questa esperienza?
Il mio desiderio è quello di continuare a scrivere pezzi di Civile in modo parallelo alle altre mie creazioni, per ora non la vedo la conclusione di questo progetto, che sarà presentato in altre città sia come un corpo unico che contiene tutti i pezzi sia in modo virale. Continueremo a infilare gli interventi nei luoghi di passaggio.
Lungo il cammino ti sei legata a delle figure attoriali: che tipo di risultati hai ottenuto, come artista, con questo processo?
Per me il percorso di scrittura di Civile è un grandissimo lusso: il lusso di passare del tempo con gli attori per ascoltarli ed ammirarli cercando di scovare dove e in che modo si è manifestata la loro intenzione, la loro scelta di vita. A quali domande l’essere attore pensino che dia, o abbia dato, risposta.
In queste opere brevi io e gli attori dobbiamo sentirci assolutamente in agio, dobbiamo essere d’accordo su tutto, e questo equilibrio è una mia responsabilità. Mi spiace quando gli attori vivono una situazione in cui non c’è una sovrapposizione adeguata alla propria intenzione. Che bisogno c’è di essere attori di teatro in quest’epoca se non c’è questa armonia?
Questa è una delle regole che ci diamo. Il risultato, l”albero” che scaturisce dal confronto, deve corrispondere al pensiero estetico del protagonista. Per comporre Civile è come se mi fossi armata di tanti setacci; quando, dopo tanti passaggi, resta la pepita, verifico che sia preziosa anche per l’interprete, così costruisco Civile. Sono obbligata, in questa relazione, a forzare la mia estetica, è un allenamento formale prezioso, è come se accogliendo gli immaginari degli attori ingoiassi dei medicinali adatti all’ampliamento della mia visone.
Cosa significa fare Civile a Ipercorpo, in un festival che cerca di ristabilire un contatto col lavoro e in questo caso proprio con il lavoro artistico e culturale?
Ho accolto lo stimolo proposto da Claudio Angelini come una possibilità di dialogo su un tema specifico. Civile ha corrisposto per molti aspetti con la visione al centro del Festival, perché Civile si occupa della possibilità di far coincidere un desiderio esistenziale con un progetto professionale, lavorativo. Civile non è necessariamente “civile”, nel nostro paese – pericolosamente – non è ancora del tutto lecito che si possa vivere di arte: le mie scelte esistenziali sono, come per tanti, il frutto di una libertà di scelta in parte presunta, ci sono dei vuoti, e questi enunciati pasticciano con tutta questa storia.
Simone Nebbia e Carlotta Tringali
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Questo contenuto è parte del progetto Situazione Critica
in collaborazione con Il Tamburo di Kattrin
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