Atlante è un titano. E come tale un artista. Si carica il peso del mondo sulla schiena e lo conduce in avanti, nel passo successivo, dove cade ogni volta l’orbita dell’evoluzione. Atlante le ha viste tutte, ma nulla su di lui ha avuto l’effetto di spazzarlo via, nessuna sconfitta, nessun affronto l’ha ammutolito: pietrificato da Perseo che gli mostrò la Medusa, punito da Zeus per aver fomentato una rivolta nell’Olimpo, la sua forza si genera dal sacrificio, la sua grandezza dalla ferita. Guarda in faccia la Medusa, guida rivolte contro gli Dei, non accetta lo stato delle cose ma lo mette di continuo in discussione. Per tutto questo, Atlante è un artista. E – dunque – un critico.
A Palermo ci voleva il Teatro Garibaldi Aperto per organizzare un incontro di riflessione attorno a questa faticosa fratellanza: gli artisti occupanti da un lato, i critici militanti (per il solo fatto di essere lì) dall’altro. Pensiero Muto è quello che accomuna entrambi, ma che dal silenzio trae forza sempre rinnovata di espressione artistica. Nello spazio di platea, dove non ce n’è mai stata una a dire il vero, le sedie pieghevoli messe in circolo hanno dato forma all’occasione, il nostro sedervi e il disporsi all’ascolto e alla discussione ha dato il via allo scambio di esperienze e di pensiero. In ogni caso, comunque, muto.
Questo perché la vicinanza, quasi osmotica, fra scena e platea, fra chi fa arte e chi ne percepisce e traduce il segno, mai come oggi è apparsa con tanta evidenza. L’apertura dello sguardo critico oltre i confini del palcoscenico, fino a spingersi spesso anche fuori dalla sala, sta pian piano disperdendo i margini dell’ascolto reciproco e sta facendo affiorare continue affinità nel territorio comune di dibattimento sulla realtà contemporanea. Tale rinnovamento, che oggi anche grazie all’avvento del web ha le sue punte più evidenti ma le cui origini erano già visibili nei decenni precedenti, ha definito il mutamento effettivo della figura di percettore, oggi di certo meno recensore e più critico. Da questo punto allora è proprio la recensione, come mezzo di critica, a modificare le sue caratteristiche e spostarsi decisamente in uno spazio più adatto a rappresentare quel mutamento nell’espressione artistica. A conseguenza di questo passaggio, necessitato dalla trasformazione, possiamo dunque definire la critica come un atto di responsabilità che si fa carico di una visione e ne compone una riflessione che dall’idea, dal pensiero si organizza a farsi concetto; questo concetto si articola in due movimenti: il racconto dell’esperienza, che chiameremo cronaca, e la formulazione del giudizio, che non è mera attestazione normativa ma il risultato visibile, il più possibile ragionato, del proprio attraversamento. Quest’ultima, è la critica: il passaggio esistenziale in esistenze altrui, come colui che dopo un salto nell’acqua di mare si cerchi razionalmente di asciugare parte a parte del suo corpo bagnato, così un critico può “mettere giudizio” soltanto all’arte che ha saputo penetrare, e da cui è stato contemporaneamente penetrato.
Questo è il caso in cui possiamo allora tornare a parlare di critica militante, che non attesta un ambiente facendone semplicemente parte, ravvisando le diverse espressioni e mettendo in relazione esperienze in maniera sia orizzontale (nello spazio) che verticale (nel tempo), ma discute di continuo lo stato delle cose con la discontinuità e il dubbio costante di fronte ai caratteri del proprio ambiente, quindi di fronte a sé stessa. È solo allora che la critica, quando si confronta comparandosi all’arte posta in giudizio, si spoglia dell’esclusività autoreferenziale che spesso le si contesta e sa mostrarsi per quella che è: una forma di intervento sociale, una condizione esistenziale che non può far prescindere il giudizio dalla propria biologia, mediando organicamente emozione e ragionamento. Essere artisti è essere critici e dunque cittadini: ma l’arte è un titano in rivolta, qualunque peso si porti alle spalle.
Simone Nebbia
Insomma, Simone, il critico continua a essere uno che va a dormire nel letto di un altro (per dirla con Bloy/Bene/Giacché)…
Esatto caro Attilio, ma per dormire nei letti altrui ci vuole non dico una inclinazione alla promiscuità, ma almeno una predisposizione alla scomodità di materassi cui non si è abituati. Mi pare che maggiormente si stia ravvisando, in questi anni. la crescita di una critica “sacco a pelo”, per intenderci, una critica “da campeggio” che nella scomodità produce il meglio e sta riprendendo l’uso appassionato della partigianeria. Vabbè, insomma, diciamo che in mancanza di una casa e quindi di una stanza e di conseguenza di un letto, si fa di necessità virtù…