Nei percorsi dei flussi migratori ciò che distingue il viaggio verso Occidente da quello verso Oriente ha una radice ben profonda nella diversità di obiettivi: se il West, luogo mitizzato dalla cinematografia hollywoodiana, è stato presentato come territorio d’espansione e di conquista anche sanguinaria, l’East ha da sempre una connotazione più incline alla scoperta e dunque al movimento per conoscenza e ricerca. Lo stesso Cristoforo Colombo, che la storia ci consegna come simbolo dell’esplorazione e della rivelazione culturale, partito per l’Oriente in cui misurare la sua conoscenza del mondo noto nell’ignoto, giunse suo malgrado in quell’Occidente che divenne da subito terra di conquista e colonizzazione (come la racconta il bel volume di Tzvetan Todorov La conquista dell’America, il problema dell’altro, uscito per Einaudi nel 1997). West End è il titolo di questa edizione di Short Theatre 7: verso Occidente con la cura dell’Oriente, sarà mai possibile convertire l’uno all’altro movimento di pensiero e azione, modificando così i flussi della storia? Ci riuscirà mai il teatro, l’arte che, in quanto spinta al rinnovamento, alla crescita civile dell’individuo e della collettività, al riconoscimento dell’uomo nell’uomo di fronte, è in tutto e comunque un atto politico?
Quale migliore spazio d’apertura se non un teatro che si chiama India e se ne sta in uno spazio liminare di città, lungo il fiume che tratteggia Roma silenzioso e denso del peso dei secoli, quale posto migliore di un teatro che in pochi mesi sta per sparire all’orizzonte della conoscenza per iniziare l’edificio che lo consegnerà (un giorno si spera vicino) a un nuovo corso della sua funzione culturale, chissà se davvero rispettoso di quella originaria che potremmo a questo punto definire “orientale”, quale posto migliore dove riunire l’onda in viaggio dello spettatore teatrale che scroscia per le sue sale e si misura con gli spunti offerti dall’arte alla sua connotazione contemporanea. Non ce n’è di posti migliori a Roma, anche perché, di posti a Roma, non ne rimangono più: centro del mondo, di esso capitale, fulcro di ogni esperienza di viaggio, città della scoperta e della conquista, città del flusso attraversata da chiunque, ma dove in fondo nessuno resta mai.
Short Theatre è iniziato in un giorno di pioggia furiosa, il giorno dopo era tornata l’estate e un bel sole che colorava di tinte antiche la sua atmosfera decadente; le scarpe in terracotta di Mimmo Paladino che sono lì a centinaia, installate sulla facciata d’ingresso dal 2004, dall’Edipo a Colono di Mario Martone fondatore del teatro nel 1999, mi inducono a pensare chissà che fine faranno, chissà in quale scarpiera verranno riposte e le scarpe di chi calpesteranno questo brecciolino lungofiume; per ora di scarpe ne vedo di ogni tipo: chi ha lasciato ai piedi, fiducioso, le infradito estive e non si vuole piegare al clima che imperversa e all’umidità preautunnale, altri previdenti invece hanno preferito le scarpe chiuse ché di questo caldo e questa estate non ne potevano più. Ma le scarpe di ognuno sanno per tutti la direzione, quella di infilarsi nelle sale dove i tanti spettacoli internazionali fanno il paio con produzioni italiane che non abbiamo visto e che non vedremo – ancora – in questa città, sanno spingersi dalla platea al bar di una comunità che vuole ritrovare un senso al suo peregrinare, sanno girare intorno all’altalena dorata di una performance di Franko B, nel foyer del teatro, lenti e circolari, gli spettatori scambiano sguardi con lui che li osserva in mille modi diversi, instaura con ognuno una relazione particolare, nel grande universale che è la relazione umana.
“La fine infinita dell’occidente”, questo Short Theatre anno 2012, con cui svelare il grande falso di un viaggio verso Oriente che l’alto valore storico ha rapito chiamandolo viaggio all’Occidente, ma fu un errore, è sempre un errore la conquista che non suppone scoperta: spetta a noi, spetta all’arte tradurre un termine nell’altro, vestire Cristoforo Colombo degli abiti improvvisati, innamorati di Marco Polo, distribuire scarpe in terracotta a chiunque voglia camminare in questo spazio liminare dove una fine ricomincia, il giorno dopo, e dove un sole ogni volta risorge. È iniziato in un giorno di pioggia furiosa, il giorno dopo era tornata l’estate, un teatro che si chiama India schiude una stagione al maggiore che si chiama Argentina: ma sempre a Oriente nasce, l’alba di un giorno ancora.
Simone Nebbia