Emilia Verginelli, 28 anni, autoformazione (laboratori con Marcel Marceau, Susan Batson, Julie Stanzak, Emma Dante, Ricci/Forte), fondatrice insieme a Marco Calvani della compagnia Mixò.
Qual è lo spettacolo che ti ha cambiato la vita?
Forse non ne ho uno in particolare in questo momento, ne ho tanti… sicuramente Emma Dante è un riferimento fortissimo se vogliamo parlare di teatro contemporaneo. Io la parola “contemporaneo” non la capisco, però se mi chiedi di un linguaggio che oggi mi dice qualcosa, quello di Emma Dante lo sento sulla pelle. A Parigi quest’anno ho visto Big and Small (Gross und Klein, ndr) di Botho Strauss con la regia di Benedict Andrew e mi ha colpito tantissimo. I Peeping Tom mi piacciono molto. Per quello che riguarda gli autori Marco Calvani naturalmente, Neil LaBute, Paravidino.
Costi e ricavi: un bilancio del laboratorio veneziano.
Non sono mai stata a Venezia durante i laboratori della Biennale e trovo perciò molto interessante l’organizzazione internazionale, l’atmosfera che si respira. Sono affascinata da tutti e cinque gli ospiti: Ronconi, Tolcachir, Gabriela Carrizo, Donnellan, LaBute. Tutti di livello internazionale e, Ronconi a parte, non molto ospitati in Italia. Nello specifico del mio laboratorio, quello di Declan Donnellan, sono rimasta molto colpita. Sono anche contenta di non avere una messa in scena come obiettivo finale, non sarebbe coerente con il lavoro che stiamo facendo. Donnellan e Ormerod sono sorprendenti, nel senso che ci hanno portato a un livello indescrivibile, con un lavoro molto sottile che lentamente stiamo assorbendo. Donnellan parla del concetto di grazia, di un dono, una magia, che a un certo punto arriva, ma che non è descrivibile con le parole. Gli elementi più importanti sono lo spazio – inteso come campo energetico e luogo in cui ci muoviamo – e le immagini, che noi artisti dobbiamo essere disposti a perdere in ogni momento. Quello che vediamo è qualcosa che non conosciamo e quello che pensiamo di ricordare fa parte del passato e non esiste più. Rispetto ai costi, poi, ognuno si è organizzato come poteva…
Che senso ha fare teatro in questi tempi di crisi?
La crisi c’è in tutti i settori: la mia speranza – dato che voglio essere ottimista – è che probabilmente si darà maggior valore alla qualità. Forse chi resiste è chi veramente vuole fare questo mestiere. Probabilmente sono i momenti di crisi a generare la migliore creazione artistica. Anche perché i problemi non sono solo economici. La crisi è a più livelli: morale, generazionale, politica e sociale. Si sopravvive, ma è un lavoro fatto di sacrifici e il valore si misura non solo nel ritorno economico, ma anche nelle rinunce.
Andrea Pocosgnich