Colgo la questione che in una fugace chiacchierata ha posto il direttore della Biennale Teatro, Àlex Rigola: «perché siete qui?». Me lo chiedo perdendomi tra i vicoli di Santa Marta, bruciati da un agosto che non dà tregua per temperature e umidità. La risposta la trovo tra le aule dello Iuav, all’ex-cotonificio: durante un incontro che Luca Ronconi fa con i partecipanti al suo laboratorio per registi e attori.
Tutti sono arrivati in laguna col mito ronconiano ben stampato nella mente: un investimento di denaro, tempo ed energia. In effetti sono (siamo) la generazione della formazione permanente e della perenne attesa: con un occhio all’e-mail e un orecchio al telefono. Sempre pronti a un incontro, ecco dunque nuovamente il senso della presenza – forse di noi tutti – qui a Venezia.
Il Maestro tiene lezione per due ore al giorno, poi sta ai quattro registi coinvolti (Claudio Autelli, Licia Lanera, Luca Micheletti e Rocco Schira), lavorare sul Pirandello di Questa sera si recita a soggetto – quasi una naturale prosecuzione del lavoro fatto da Ronconi su I sei personaggi in cerca d’autore con gli allievi della Silvio d’Amico.
A ciascuno dei quattro registi sono stati affidati cinque attori. L’atmosfera è quella pungente delle sfide: per gli attori, la ricerca di una dedizione nel seguire il lavoro di un regista che potrebbe avere meno esperienza di loro, nel quale cercano quel guizzo che hanno visto brillare negli occhi di Ronconi; per i giovani registi, l’opportunità di misurare il proprio carisma, l’abilità di ascoltare gli attori e farsi capire, nonché di riconoscere nella “creta” il possibile volto di un personaggio o di un carattere.
Nel secondo giorno di laboratorio seguo Licia Lanera (regista e fondatrice della compagnia Fibre Parallele) e il suo gruppo di attori. Sono seduti, in mano il testo: potrebbe sembrare un passo all’indietro rispetto al percorso abituale che vorrebbe gesti e azioni, solo dopo un lungo lavoro a tavolino. Infatti il primo giorno avevo assistito già a un piccolo studio, una “filata”, come si dice in gergo, ossia una serie di scene recitate possibilmente senza fermarsi. E invece dopo un giorno di filata, Lanera seglie di tornare al “tavolino”. Con una settimana a disposizione per allestire alcuni brani del celebre testo di Pirandello, i metodi si sfaldano e si ricreano. Forse per seguire le indicazioni di Ronconi. In caso di bisogno si torna al testo, dunque: si lavora di più su alcune intenzioni.
La lettura, in questo caso, si focalizza sui rapporti tra Mommina e Verri. Lanera chiede a Cristian Mariotti La Rosa(Verri) di eccedere nella teatralità: «si fa sempre in tempo a pulire», aggiunge la regista. Vuole veder l’attore lasciarsi andare, vuole un giovane e nevrotico nerd. Mommina (Alice Torriani) è svuotata, ha lo sguardo perduto, è ormai vampirizzata dal marito, per parafrasare una definizione della regista.
Poi tutti tornano in piedi, febbrilmente: spostano un tavolo, sarà il palco per questa scena. Le note di S.s. Dei naufragati riempiono la stanza: la musica di Capossela è già teatro, si porta dietro quella sacralità folclorica nella quale ama affondare le mani l’artista barese, di conseguenza bisogna scegliere pochi movimenti e stilizzarli. Agli attori la regista chiede di non affogare in quella canzone, ma allo stesso tempo di tenerne conto, «via la teatralità». Un neon blu illumina in controluce Verri e Mommina. Alle loro spalle le sorelle (Alessandro Sanmartin e Fabrizio Rocchi) ridono insieme a un’inquietante Signora Ignazia (Paola Giglio). I due sposi sono uno davanti all’altra, in ginocchio. Pochi gesti vengono fissati dopo numerose improvvisazioni. Lanera lascia lavorare il gruppo, poi prende quello di cui ha bisogno.
È il bozzolo di una piccola creazione. Mentre mi avvio verso la porta per andare via, la regista scherza: «sono venuta qui per lavorare gratuitamente». Eppure in ogni suo gesto – così per gli attori – c’è un fremito evidente, una passione violenta e bellissima. Anche questo è il senso dell’incontro che cerchiamo.
Andrea Pocosgnich