HomeIDEEPoliticheCinque stagioni nell'ipotesi di una: il Valle Occupato per il 2012/2013

Cinque stagioni nell’ipotesi di una: il Valle Occupato per il 2012/2013

Motus al Valle - Foto del Valle Occupato

Nelle pieghe della cronaca è annidata la morbosità dell’aderenza ai fatti, la rincorsa della notizia che li attesti e che sia ultima di una serie, nella migliore delle ipotesi di chi scrive: definitiva. Ecco dunque che scrivere di un Valle Occupato fresco di primo compleanno (festeggiato con la prima pubblicazione edita da DeriveApprodi, La rivolta culturale per i beni comuni) nel momento in cui presenta le sue «stagioni» per il nuovo anno 2012/13, non può non far confliggere l’idea del tempo con gli accadimenti. Primo fra tutti il fatto che sia un posto occupato – quindi precario e in continua trasformazione, a rischio ogni giorno di legittimazioni da parte degli assegnatari reali – a promettere così lunga gittata ai suoi progetti, arrivando addirittura a dichiararne fino alla prossima estate. C’è però anche altro in ballo, in continuo vortice di accadimenti, un’altra questione particolarmente spinosa di politica culturale: l’assessorato comunale di Dino Gasperini, in odore di campagna elettorale, ha pensato di istituire la Casa dei Teatri e della Drammaturgia Contemporanea, organo di gestione del teatro “apparentemente” pubblico, con la sponda di partner contemporanei come le bighe nel traffico dei Fori Imperiali, quali l’Agis e il Centro Nazionale di Drammaturgia, incapace il primo di corrispondere al panorama cittadino del teatro d’arte la minima attenzione o beneficio, capace il secondo di racchiudere in un farsesco nucleo di rappresentanza una generazione di scrittori che (tranne pochi) non hanno mai avuto la rilevanza rivendicata né mai sono stati in grado di far detonare il loro ipotetico talento. Se già le forze in campo non lasciavano intravedere nulla di buono, l’assoluta nominalità del proposito è stata poi certificata da due fattori: il gioco da tre soldi e non di più di nascondere la delibera in cui si dichiarava l’apertura plurale per assegnare la gestione tramite bando, il gioco da baro che la rende visibile – dopo accese richieste – e finisce per dichiarare l’esatto opposto, soltanto infarcendo di politichese quel che ha tutte le caratteristiche di una spartizione a tavolino.

Conferenza Stampa - Foto di Valeria Tornasulo

Nel “sistema teatrale” gestito guarda un po’ dalla onnipresente S.r.l. Zètema che, insieme a varie costruzioni poco inclini a simili progetti (come il Globe o il complesso monumentale di Villa Torlonia in cui si deve specificare sia “compreso anche un teatro”), coinvolge quelli che erano – sono e chissà che diventeranno – i teatri di cintura, di certo non è compreso il Valle, che dalla sua veneranda età di quasi 300 anni si fa suo malgrado culla del contemporaneo, ossia quel movimento trasversale che intende il teatro come stimolo a farsi racconto del presente e che sembra davvero il grande escluso, in un progetto che mira irrimediabilmente a farsi racconto di un passato da non dover per forza ricordare. E allora il Valle – tra i primi a protestare per la mancata delibera – si deve ergere a difensore di quegli esclusi che non ha tuttavia la piena vocazione a rappresentare, ma lo fa con convinzione e davvero coriacea partecipazione.

Valle Occupato - Foto roberta perrone

In conferenza stampa, con le sedie sul palco a lasciar vuote le poltrone rosse di platea, i progetti lanciati sono stati innumerevoli e promettono notevole rilievo: cinque stagioni in un anno, fino all’estate, in cui fare formazione per grandi e piccoli, professionisti e non, produzione di pensiero, ricerca artistica sui linguaggi e le poetiche, riflessioni tra scena e platea, contaminazione fra le varie arti e senza dimenticare il progetto massimo, ossia quello politico di costituire la Fondazione per il Teatro Valle Bene Comune; in ognuno di questi e altri progetti sono i nomi a certificarne l’assoluto valore: Rafael Spregelburd, Luca Ronconi, Rem & Cap, Fausto Paravidino, Motus, Antonio Latella, tra quelli di maggior spessore, ma tantissimi sono i partecipanti che pare abbiano dato la loro adesione, a giudicare dalla nutrita schiera tra i documenti allegati. Ciò che resta da capire è cosa davvero sarà ascrivibile a loro, perché posto che il Valle non vuole minare la professionalità di artisti che ancora per adesione gratuita portano il loro lavoro in questa sala, è vero allora che l’apporto promesso potrà avere varie forme: come quello di Ronconi, ad esempio, che – non potendo portare qui le sue maestose produzioni – avvicina il proprio nome ai Sei personaggi in cerca d’autore recitato da studenti d’Accademia e a un incontro sul teatro di Pirandello. Lunga è stata la conferenza, ancora una volta conferma dell’ottima capacità di ragionamento e della spasmodica ricerca di contenuti, in un ambiente troppo spesso asservito alla rappresentazione di sé così nota in altre conferenze stampa. Lunga sarà, tuttavia, anche questa stagione fatta di stagioni, di promesse da dover mantenere una a una da soli, senza l’apporto delle amministrazioni pubbliche, con la sola forza di chi vorrà frequentarlo, questo teatro, e crederci ancora per un anno intero.

Simone Nebbia

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Leggi la delibera n°177 del 19/06/2012 emessa dal Comune di Roma

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6 COMMENTS

  1. Caro Simone, tralascio tutta la parte “politica” dell’articolo che non conosco abbastanza né vorrò mai conoscere (sai bene quanto sono lontano dalle manovre e dalle beghe della politica culturale romana, sono questioni che non mi appassionano).
    Vorrei solo concentrarmi sulla frase dedicata al Centro Nazionale di Drammaturgia, che definisci «farsesco nucleo di rappresentanza di una generazione di scrittori che (tranne pochi) non hanno mai avuto la rilevanza rivendicata né mai sono stati in grado di far detonare il loro ipotetico talento.»
    Qualcosa di molto simile l’ha scritta Graziano qualche giorno fa sul Paese Sera «neonato Centro Nazionale di Drammaturgia, che al di là di annoverare tra i suoi soci alcuni drammaturghi di talento (come Sarti, Demattè, Palladino, Archibugi), non sembra però, almeno per ora, essere davvero rappresentativo di alcunché, visto che il suo zoccolo duro raccoglie più che altro il coagulo di una generazione non più giovane che ha già detto ciò che aveva da dire artisticamente e il cui peso, nell’ambito del teatro contemporaneo, è oggi piuttosto scarso.»

    Sono iscritto al Centro sin dal primo giorno della sua fondazione e ci collaboro abbastanza attivamente. Non mi ero mai accorto che fosse un “nucleo farsesco” (ma se anche fosse, tu sai bene che la farsa è la più peculiare modalità espressiva italiana e ci riguarda tutti), né che fosse composto da coetanei di Matusalemme.

    Ma la cosa più fastidiosa risiede nell’accusa che rivolgi ai componenti del Centro di non aver mai avuto la rilevanza rivendicata e di non essere riusciti a far “detonare il loro ipotetico talento”.
    A parte il fatto che se tu scorri l’elenco dei 160 soci (pubblicato nel sito) troverai diversi nomi “rilevanti”, resta che il grande problema dell’odierna drammaturgia italiana sta proprio nell’incapacità del sistema teatro – o del sistema cultura – a dare la giusta rilevanza alla professionalità drammaturgica (bada bene che uso il termine “professionalità” al posto di “talento”: un drammaturgo deve essere professionale… se poi ha anche talento tanto meglio, ma purtroppo di Cechov ne nasce uno ogni 100 anni). Il nostro sistema teatrale uccide la professionalità, figuriamoci poi il talento.
    Insomma, l’argomento che tu utilizzi in forma di dileggio verso gli aderenti al Centro è lo stesso argomento e problema su cui da qualche anno l’intero mondo teatrale italiano dibatte, cioè come dare spazio e dignità ai drammaturghi e alle loro produzioni prima che il tempo li trasformi in farseschi ottuagenari.
    Vorrei anche capire in base a quale logica si debba affermare che un centro di 160 drammaturghi NON rappresenti “alcunché”. Nella peggiore delle ipotesi rappresenterà i 160 drammaturghi iscritti, il che non mi sembra poco.
    Vorrei, in definitiva, che giornalisti sensibili e competenti come te e Graziano non cadeste nell’errore di dare acriticamente le “pagelle” ai diritti e alle iniziative dei drammaturghi, distinguendo a vostro arbitrario giudizio quale iniziativa è meritevole di attenzione e quale è “farsesca”, chi ha diritto di protestare e chi no, chi protesta perché ha le giuste (eticamente intese) ragioni e chi protesta per biechi e inconfessabili motivi di “carriera”.
    Vorrei soprattutto che gli effetti di un sistema irrelato e inadeguato non divenissero, per un’ambigua formulazione dialettica, le colpe di cui chi è vittima deve vergognarsi e/o discolparsi. Se i drammaturghi italiani sono “malati” di precoce oblio, combattiamo quest’ultimo, non i “malati”.
    Fabio M. Franceschelli

  2. Sono un socio del Centro di Drammaturgia Italiana Contemporanea.
    Scrivo per precisare che l’associazione di cui faccio parte è aperta a tutti i drammaturghi italiani e si prefigge lo scopo di promuovere la drammaturgia italiana in tutte le sue forme.
    Non è un manifesto di stile o politico, né tantomeno una congrega di assaltatori di poltrone. Quello che ci accomuna è il fatto di fare la stessa attività – chi con successo, chi con meno, chi scrivendo drammi, chi commedie – e di voler continuare a farla cercando di portare attorno alla figura dell’autore una considerazione maggiore e maggiore dignità.
    L’associazione, pur contando nomi eccellenti, non nasce come il club privato di una élite, per statuto non può produrre alcunchè, si prefigge scopi generali, è condotta secondo criteri democratici e mira a sciogliersi dopo aver raggiunto l’obiettivo di costruire un Centro di Drammaturgia Italiana Contemporanea pubblico, oggi assente.
    Nessun autore si sentirà mai rifiutato dal CENDIC: giovane o vecchio, figlio d’arte o figlio di nessuno, sponsorizzato o invisibile, apocalittico o integrato, nel CENDIC troverà una Casa dove discutere con altri autori, scambiare idee, provare scene e avanzare proposte, contando alla pari di qualsiasi altro socio, senza maestri e senza lacchè.
    Probabilmente tutto questo a molti può sembrare inusuale e molto poco italico, al punto da liquidarci in toto con espressioni anche offensive.
    Roberto De Giorgi

  3. Caro Fabio, provo a rispondere limitatamente alle parti della tua lettera che mi vedono chiamato in causa.
    Il punto sta tutto nel tuo incipit, in quella parte politica che “non conosci abbastanza e non vorrai mai conoscere”. Mi spiego: il CND ha tutto il diritto di esistere, di perorare le sue cause e di rappresentare chi crede (viva la biodiversità). Certo, in quanto si definisce “nazionale” (ambizione legittima e anzi di grande rilevanza) è ovviamente soggetto a critiche sulla sua impostazione, e non si può dire che ambisca a rappresentare solo i propri iscritti. Ecco, sull’impostazione io qualche riserva ce l’ho: nei momenti pubblici a cui mi è capitato di assistere o partecipare, il CND ha espresso una concezione non convincente, soprattutto corporativa e assai poco di contenuto. Quindi per me poco rappresentativa di un panorama nazionale. Ma anche questa considerazione, tuttavia, rientrerebbe a pieno diritto nella sacrosanta biodiversità.

    Il problema, per me, nasce a seguito della delibera Gasperini sulla Casa dei Teatri, dove il CND assieme all’AGIS (associazione di teatri privati e il larga parte commerciali) sono gli unici due soggetti non politici nel comitato di indirizzo. Insomma, il Comune di Roma prende come referente artistico CND e AGIper un progetto che impegna 3 milioni di euro6 spazi di spettacolo e 3 di produzione. Un circuito in piena regola e – in tempi di tagli – presumibilmente l’unico progetto che il Comune sarà in grado di sostenete. In questa scelta, io, personalmente, non vedo rappresentati quelli che, a mio giudizio, devono essere gli obiettivi del sostegno pubblico in campo teatrale: il teatro popolare d’arte, il teatro contemporaneo, il tentativo di accesso al settore delle nuove generazioni. A seguito di questa carenza, mi sento in diritto di criticare, motivando, tale scelta.

    Sai bene quanto mi sono speso in favore della drammaturgia contemporanea, la mia è tutto meno che la presa di posizione di chi pensa che il testo a teatro sia superato. Anzi, sono anni che mi spendo per dare spazio alla drammaturgia italiana in varie forme, là dove posso (compreso il tuo lavoro). Ma il punto di partenza non può essere un preteso “mestiere del drammaturgo professionista” che va garantito a suon di leggi e decreti come nella russia staliniana. La corporazione è la morte dell’arte. Bisogna piuttosto partire dalla qualità, anzi dall’eccellenza. In Italia ce n’è molta. Sono convinto che anche il CND possa operare in tal senso e rappresentare questa eccellenza, ma per ora non ha espresso un simile indirizzo. Per ora è semplicemente il referente di un progetto pasticcione che sprecherà parecchie risorse pubbliche. E le scelte di campo politiche – anche se non vogliamo vederle – si scontano, almeno nelle critiche.

    Infine una considerazione sul sistema teatro: sarà anche marcio, corrotto e vetusto, ma i talenti alla fine sono sempre emersi. Magari recitano per pochi spiccioli, ma il mondo dell’arte li riconosce come tali. Ecco, partiamo da lì; cominciamo a chiedere a gran voce che le eccellenze vengano sostenute. Ne gioverà l’intero sistema, compreso chi non è Checov.

    Con affetto,
    Graziano Graziani

  4. ok Graziano, quel che scrivi è molto chiaro. Opinabile, discutibile (come lo è qualunque cosa) ma legittimo e chiaro. Nel tuo precedente articolo, e in quello di Simone, secondo me mancavano proprio queste argomentazioni, che forse si intuivano tra le righe ma che non venivano espresse chiaramente, e tutto si riduceva ad un giudizio un po’ frettoloso e in parte sprezzante verso il CENDIC.

    Due parole su questo Centro:
    innanzi tutto è nato da pochissimi mesi, e quindi credo sia giusto dargli ancora un po’ di tempo prima di valutare bene la sua personalità e la sua politica culturale. Per certi versi la sua natura è ancora informe a noi stessi che ci collaboriamo.
    Poi è nato interamente “dal basso” e grazie ad un processo molto democratico. Diversi mesi di discussione e litigi all’interno di un forum ospitato da dramma.it a cui qualunque autore interessato poteva accedere e partecipare. Mesi di discussioni passati ad analizzare la situazione del teatro e della drammaturgia italiana e a porsi la solita ineludibile domanda, “che fare?”.
    Il CENDIC è UNA risposta, non LA risposta, ma semplicemente una delle tante che si potevano mettere in atto. Se è la risposta giusta ce lo dirà il tempo.
    Ambisce a divenire un interlocutore importante a livello nazionale. Forse ce la farà, forse no, ma intanto 160 autori teatrali da tutta Italia non sono pochi, semmai sono sorprendentemente tanti.
    Ha una sua parte “politica” che dialoga con tutte le istituzioni, nazionali e locali. Ma ha anche tutta una serie di commissioni, gruppi di lavoro, collettivi territoriali (Roma e Milano) che producono analisi, proposte, iniziative, rivolte a tutti gli autori. Segnalo (per ora) il lavoro che si sta portando avanti sulla diffusione estera della drammaturgia contemporanea italiana e anche l’iniziativa di masterclass gratuite rivolte alle scuole superiori.
    Non ha uno “zoccolo duro” riconducibile a chissà quale generazione o conventicola, semmai un gruppo di autori variegato per età, esperienze, circuiti, che si sono uniti in questo progetto rompendo tradizionali diffidenze e pregiudizi.
    Ci sono – ancora in gestazione – tante idee e progetti e non si può ridurre tutto al “fattaccio Gasperini” (se di fattaccio si tratta).
    Non so se tutto questo sia considerabile “corporativo” e non so nemmeno se l’essere corporativi, in questa situazione, sia da considerarsi un male.

    Infine, qualche parola sulle “eccellenze”. Io e te veniamo dagli stessi circuiti e quindi quando parli di “eccellenze” o di “contemporaneo” sappiamo entrambi individuare diversi nomi rappresentanti di tale contemporaneità ma assenti negli elenchi soci del CENDIC. Da qui il dubbio che il CENDIC non rappresenti adeguatamente il contemporaneo.
    Ora, a parte il fatto che della nascita di questo centro (presupposti e motivazioni) è stata data ampia diffusione e che dunque se determinati autori non si sono mostrati interessati non è che li possiamo obbligare né pregare in ginocchio… io sarei felice di avere vicino a me vecchi compagni, ma se a loro non va si va avanti lo stesso.
    Quello che più mi interessa evidenziare è il carattere molto parziale e soggettivo di concetti quali eccellenze, contemporaneo, comunità artistica. All’interno del CENDIC ho conosciuto autori molto considerati e rappresentati (anche all’estero) ma praticamente sconosciuti nei circuiti “indipendenti” che più mi appartengono. Viceversa, molte eccellenze di tali circuiti (che anche io considero tali) risultano ignote a tanti autori che animano il Centro.
    Allora mi dico: forse di mondi teatrali e comunità artistiche ve ne sono più di una, forse una volta tanto è il caso di rinunciare a pregiudizi ed eliminare categorie manichee, forse la contemporaneità (e lo dico senza ironia, quasi come un personale esame di coscienza) è più varia di quel che si pensi e non deve necessariamente passare per centri sociali, teatri occupati o ricerca spinta.

  5. Caro Fabio, perdona la mia tardiva risposta ma giungo qui dopo giorni passati in giro e con scarsa connessione. Tornando ho trovato anche la risposta di Graziano cui poco posso aggiungere, perché davvero in essa mi riconosco, soprattutto nella sua chiusura.
    Non ho avuto nulla da chiedere al CENDIC finché ha svolto quell’azione di promozione della drammaturgia contemporanea per cui nasceva e ha cercato di spingere in una direzione che ritengo virtuosa (i lavori nelle scuole, l’accoglienza ai giovani e l’opportunità ottima ma da verificare di scouting, ecc), nonostante forse mi sembri percorrere una via un po’ confusa e limitata ad esperienze di scrittura che non mi sembrano aver prodotto artisticamente troppe cose da segnalare al livello (appunto nazionale) che si promette di rappresentare, ma questo è anche ascrivibile alla sua giovane età e potrà certo mostrare risultati nel tempo. Da qui il mio pericoloso “farsesco”, aggettivo che mira a ravvisare quanto poco sia probante darsi una rilevanza che non giunga dal di fuori.
    Nel momento in cui, tuttavia, il Centro si pone come soggetto politico – in un periodo tra l’altro di così grande emergenza e di così importanti equilibri – sobbalzo sulla sedia di fronte alla direzione che avete deciso di seguire, facendo di un nucleo di riconoscibilità in un settore della produzione artistica un partner di uno dei peggiori disegni politici che si siano visti su questa città: ecco allora che io devo criticare l’opportunità, che ritengo impropria (soprattutto perché denuncia confusione: mi piacerebbe sapere quanti degli iscritti e co-firmatari della delibera l’abbiano sconfessata con le loro associazioni private) e devo criticare soprattutto il risultato raggiunto da questa collaborazione.
    Giuste le tue rimostranze o quelle di chi mi ha chiamato o scritto in privato o in pubblico come qui sopra Roberto De Giorgi, ma certo qualche domanda dovrete farvela in vista di un 2013 ricco di appuntamenti che di certo non avrete saputo obliare con tanta distrazione…
    E un’ultima cosa rispetto al tuo “tralascio la parte politica”: al di là della mia convinzione che la politica non sia un mostro a tre teste ma è fatto delle nostre scelte, mi sento di metterti in guardia – qualora sia come dici – perché proprio di cose politiche e nel modo che ritengo peggiore il “tuo” Centro si sta occupando.

    Con affetto e davvero nulla di personale, ci manca pure
    Simone

  6. so bene che non c’è nulla di personale, figurati.
    Riguardo al “mio” Centro, se un po’ mi conosci sai bene quanto sono intellettualmente indipendente. Aderisco ad una organizzazione se mi convincono gli obiettivi che persegue ma se poi questi vengono traditi me ne tiro fuori in un secondo, come ho sempre fatto. E se conosci il mio teatro sai bene quanto io sia sensibile alla politica, anzi all’ideologia.
    Riguardo questa storia trovo troppe reazioni sopra le righe, esagerate, umorali, pretestuose, e anche ipocrite, e trovo troppi savonarola pronti a fustigare costumi che magari hanno indossato fino ad un attimo prima, o che magari vorrebbero indossare ma ora non possono.
    Caro Simone, mi sono rotto le palle di improvvise, inspiegabili e incondizionate santificazioni opposte ad altrettante improvvise, inspiegabili e incondizionate dannazioni. A Roma tutto è politico da 2500 anni, che novità c’è? Conosci forse qualche organizzazione o evento culturale di rilevanza che non abbia rapporti con la politica? O forse pensi che solo determinati soggetti abbiano il copyright dei rapporti “virtuosi” mentre tutti gli altri debbano percorrere esclusivamente la strada dell’inciucio e dell’intrallazzo? Ne ho viste troppe – forse qualcuna più di te – per sapere che le cose non stanno così.
    Fortunatamente il mio percorso artistico (qualunque sia) non passa né per i teatri occupati né per quelli di cintura né per i rapporti con la politica né per i rapporti con le élite che monopolizzano i grandi eventi teatrali e quindi godo del privilegio di guardare le cose con calma e distacco. Le urla “al lupo al lupo” mi fanno sorridere. Per il momento cerco di capire, e mi mancano le vostre invidiabili certezze. Magari se qualcuno di voi chiarisse con un bell’articolo in cosa consiste punto per punto quel che tu definisci «uno dei peggiori disegni politici che si siano visti su questa città» gliene sarei grato. Sono pronto a ravvedermi ma finora non ho letto nulla che abbia argomentato e giustificato tutto questo “orrore” che sento in giro.

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