«Dov’è il corpo? Può una performer come Laurie Anderson non essere presente? Aprendo il Trouble 2012 con Dirtday, un nuovo spettacolo, dà il la all’intero festival. In quasi quarant’anni di carriera, Anderson ha usato musica, voce, testo e corpo nelle sue performance. Fondamentale nel suo lavoro è una relazione creativa con la tecnologia, che ha influenzato i suoi contemporanei. Stando al programma, il festival di quest’anno ha uno spirito collettivo. Come sei critici individuali, possiamo essere un collettivo? Possiamo scrivere e firmare questo testo insieme?». [traduzione mia]
Questo semplice testo non dice poi granché. Pone una domanda sull‘ultimo spettacolo di Laurie Anderson; informa il lettore che questa performance ha aperto il festival; torna a parlare della carriera di Anderson spiegando brevemente il suo modello di lavoro e la sua importanza per i contemporanei; dà conto delle intenzioni del festival di quest’anno. Come avrebbe potuto fare qualsiasi altro programma di sala. La cosa davvero interessante è nelle ultime due frasi. Due domande. Una riguardante lo spirito collettivo, l’altra riguardante la scrittura collettiva. E nessuna firma appare sotto al testo sopracitato. Lo abbiamo scritto insieme. Esplorare il passaggio da una all’altra di queste due aree è stato il compito del primo Writing Shop, un laboratorio sperimentale che ha fatto incontrare sei critici da sei diversi paesi, raggiungendo picchi di problematicità davvero sorprendenti.
La serata del 30 comincia nello spazio angusto e soffocante della cucina di Les Halles, l’immenso ex-mercato ora centro polifunzionale per le arti, in cui Andrea Pizzalis in grembiule, stivali a spillo di lucida pelle nera, cappello da cuoco e occhiali da nuotatore è il Faust di Ricci/Forte, parte della serie Wunderkammer Soap, approdata a Trouble con altri due episodi, Didone e Ero/Leandro. Indossata una tuta di protezione compresa di cappuccio, ci conducono in questo antro colorato, noi ci separano: luci a led illuminano la cucina disseminata di oggetti, sui fornelli una pentola fumante, il forno acceso. Sul paesaggio sonoro continuo, mentre da una tv immagini di reality show all’italiana si mescolano a sequenze hardcore (che poi prenderanno il sopravvento), una profonda voce maschile racconta in francese la storia di questo Faust. Senza traduzione. Non lo sappiamo ancora, ma questo sarà uno dei grossi problemi del festival, una strana resistenza a un linguaggio condiviso. Qua e là si intuiscono parole, ma è più forte il fuoco sull’immagine. La performance di Pizzalis è accurata e meticolosa e, paradossalmente, è forse più potente senza quel testo che da programma racconta tutto, a rischio di sottolineare didascalie non sempre necessarie. Qualcuno di noi, mostrata una resistenza iniziale, il giorno dopo si ricrederà, accorgendosi di essere stato colpito nel profondo. E tuttavia sono stati toccati nervi personali che non necessariamente avevano a che fare con le intenzioni dei due registi. Questa considerazione diverrà importante per comprendere il valore del coinvolgimento personale nella valutazione di un formato come la live art che, diversamente dal teatro, proprio su quel coinvolgimento costruisce parte del proprio senso. E se poi quel coinvolgimento non è solo intimo ma anche esteso a una dimensione di gruppo? È stupefacente come la percezione, quando ne viene messo in discussione l’aspetto esclusivamente individuale, si apra a orizzonti di problematicità costantemente nuovi. E allora la performance di Ricci/Forte, il giorno dopo, sarà stata quella più discussa. Nel bene e nel male. Due parole, queste ultime, che con Faust hanno molto a che fare.
Sergio Lo Gatto
… to be continued
nei prossimi giorni sarà online la seconda parte