La noia, siamo abituati a considerarla come uno spazio vuoto, insopprimibile deserto delle opportunità, antitesi della generazione di pensiero e di azione: alla noia ci rivolgiamo per quello strano languore che ci impedisce reazione e ci inchioda a una passività improduttiva. Eppure oggi un libro-intervista, realizzato da Rossella Bonito Oliva, ci svela che in quella noia è uno degli elementi cardine della creazione, almeno per il lavoro di Antonio Rezza e Flavia Mastrella, artisti di cui è così difficile dare una definizione al punto che non lo faremo, artisti che si fanno materia di riflessione di questo nuovo La noia incarnita, volume licenziato dall’editore di Firenze Barbès che introduce quello che viene definito il loro “teatro involontario”.
La lunga intervista che apre il volume ha in sé anche il valore della doppia lingua, interessante esperimento che permette anche un primo confronto con certi concetti di cui forse ipotizziamo una voce – quella di Rezza, soprattutto, perché artista che sentiamo parlare in scena – ma con i quali è possibile confrontarsi oltre, grazie alla traduzione in inglese (di Alessandro Michel) che esteriorizza certi concetti togliendoli a quella voce e rendendoli così universali. Ma l’intervista non è che una parte, sia pur consistente: buona parte del libro è costituita da una fotosequenza curata da Flavia Mastrella, che ha la virtù di riunire immagini di scena – quindi mosse, abitate da Rezza – e immagini di habitat senza la sua presenza affondata: questo apre una riflessione intrigante e stimola a ragionare sulla relazione tra spazio e presenza, tra fisicità della scena e corpo di chi la abita.
Non casuale dunque che anche l’intervista abbia una parte fondante proprio in questa direzione: “lo spazio di Flavia chiama il movimento di un corpo sfiancato”, dice Rezza in proposito, è allora proprio qui che s’installa la noia e si “incarnisce” nel corpo (quindi nello spazio), facendosi devianza creativa della stasi inerte, che diviene pertanto brulicante. “Senza occhi almeno vado a sbattere”, così dichiarano Rezza/Mastrella una necessità al contatto con le cose, la prossimità all’accadere accadendoci dentro, lì dove è la vita spingono il corpo stanco e indolente, pachidermico, fino a un vitale punto di scontro e – dunque – di contatto. In questo contesto, allora, la noia si fa “sospensione creativa”, quella stasi che permette dedizione esclusiva al proprio corpo in creazione, l’unica condizione davvero esistente dove avviene questo “incarnimento”, quell’escrescenza che è appunto l’opera. Meglio ancora Flavia Mastrella definisce, dicendo come nell’unghia incarnita è come se il corpo attorno fosse un peso inerte e l’unico punto davvero pulsante fosse quel piccolo spazio oppresso: la missione che ricercano come artisti è un po’ quella di liberare lo spazio dalla ciste ordinaria del quotidiano, perché essa si genera da una ripetitività di movimenti che gravano la libertà espressiva, il quotidiano la sopprime e impone sull’unghia un malessere che non le è proprio.
Un libro dunque importante, un’intervista molto densa che la Bonito Oliva gestisce con padronanza di mezzi e di intenti, riuscendo nel difficile compito di non solo svelare certe strutture a fondamento del loro specifico lavoro, ma tramite esso giungere a farsi discorso universale su temi fondanti l’arte in genere, sul linguaggio come architettura creativa, sullo spazio come funzione agente, sulla relazione che lega la parola ad incarnare il gesto e la forma, sulla veracità di artisti integralisti e integrali e per questo integri, forse chissà, proprio perché in un pensiero comune ed usuale così poco integrati.
Simone Nebbia