Il sonno della ragione genera mostri. È il titolo di un’acquaforte realizzata nel 1797 dal pittore spagnolo Francisco Goya, nella quale una figura umana è riversa su un tavolo con la testa fra le braccia, mentre alle sue spalle civette e pipistrelli incombono in un volo isterico e un gatto osserva il tutto con sguardo severo e occhi spalancati. Di questa inquietante allegoria Vincenzo Schino conserva una parola fondamentale, Sonno, che pone a titolo di questo quarto spettacolo compiuto con la sua compagnia Opera.
In quel Teatro Palladium che, nella sua frontalità ed estensione da pulpito, si rivelerà essere spazio inadatto alle esigenze di prospettiva di Schino, ci accoglie il pennello abile di Pierluca Cetera, steso su un’enorme tela pendente dal soffitto: il ritratto di un uomo seduto in mezzo a quattro galli, la sua espressione abbandonata eppure febbrile. Due figure di spalle in proscenio guardano il quadro, poi un profondo suono di tempesta e le luci che calano ci avvertono che siamo già dentro la storia, che in quel momento è la storia a essersi accorta di noi. I sagomatori inquadrano il volto dell’uomo nel dipinto, che resta l’unico particolare illuminato, prima che la tela cali a scoprirne un’altra, poi un’altra, poi un’altra. Passo dopo passo l’immagine punta sempre più al dettaglio, arriviamo a un enorme occhio. E da lì entriamo nella mente.
Il palco si apre in profondità, su un paesaggio desolato. Suggestione di quel temporale che abbiamo sentito, complice la lontananza del letto di nudo ferro battuto, siamo smarriti in un luogo abbandonato, umido, ultimo. Sul letto si agita una figura, i suoi movimenti meccanici disegnano un sonno inquieto, la lotta fastidiosa contro una pace sensoriale che non arriva mai. L’uomo si decide ad alzarsi da quel letto che, girato su un fianco, mostra le sbarre di una prigione. Indossa una corona d’oro, unico elemento scintillante in uno scenario di desolazione. Civette e pipistrelli stavolta hanno la forma di enigmatiche figure: un uomo-ombra completamente nero, una presenza femminile con maschera di porcellana e due fantasmi che piantonano il confine tra sonno e veglia.
Di quell’estetica preistorica comparsa nel precedente Limite, con il rosso carminio che ci riportava alle pitture rupestri, rimane il gusto di un tableau vivant che non è mai davvero immobile, lascia sempre minuscoli particolari in orbita di ripetizioni e arriva a inserire momenti di grande ed elegante azione, come la costruzione di un trono di legno e la sua improvvisa distruzione o una lotta corpo a corpo che pare svolgersi in pressione subacquea, tanto contratti sono i muscoli. Anche laddove non tutte le luci sono calibrate alla perfezione, in questo Sonno certe immagini irrompono con una potenza e una concentrazione davvero rare; l’avanzata di Schino verso la dimensione ipnotica ha qualcosa di eroico e senza dubbio di trasversale, fendente, geniale.
«L’immaginario visivo di Goya si mescola a quello visionario di Macbeth», si legge nelle note di regia. Eccoci giunti al punto. Se il primo si impone fin da subito con una egemonia iconica cui è difficile sottrarsi, il secondo appare ancora incompleto. È alta la sfida lanciata da Schino di far affiorare dettagli drammaturgici seguendo il ritmo discontinuo e diafano del ciclo sonno-veglia: la corona, il doppio in nero, il trono, i personaggi esterni come streghe che mettono a punto un incantesimo; tutti questi elementi emergono come punte d’iceberg su cui saltare a costo di ferirsi i piedi se davvero si vuole arrivare in fondo a un percorso di senso. È questo un teatro governato dall’astrazione, intesa non come una nebulosa d’immagini, ma come giustapposizione logica che rifugge quella convenzionale. Allora l’interazione degli elementi in scena non segue uno schema coerente, avviene per innesto, passando da una visione all’altra una sorta di ermetica bolla di mercurio in cui si racchiudono i ragionamenti. Prova ne è l’assenza totale della parola: l’unico linguaggio permesso è quello pre-verbale (memorabile la scena del botta e risposta con il trono di legno, un alternarsi di sussurri incomprensibili e silenzi), mentre il commento ritmico è affidato all’esplodere di flash luminosi dietro al fondale bianco e grigio: si ha l’impressione di essere intrappolati dietro due palpebre che non fanno che aprirsi e chiudersi lasciando sagome fantasmatiche.
Il talento visivo di Schino è una lama estremamente affilata, di cui è arduo trovare il manico per esercitare un controllo. Goya e Macbeth dovrebbero riuscire a riconoscersi come impressione a specchio della stessa macchia di Rorschach (che compare nel foglio di sala), ma la traccia drammaturgica di Letizia Buoso non riesce ancora a imporsi come dovrebbe, fagocitata forse da una ipertrofia visiva che qua e là disperde la potenza dei salti logici.
Eppure la strada della folle e febbrile ricerca di Opera, che porterebbe a far convivere suggestione ottica e pungolo psicologico, è lì dietro l’angolo, oltre il riflesso inquietante che sporca di bianco l’iride, nell’ultima straordinaria tela in cui l’occhio è rimasto da solo, in primissimo piano. Un’immagine potente e terrificante che è destinata a rimanerci dentro.
Sergio Lo Gatto
visto al Teatro Palladium, 17 maggio 2012
Programma Teatri di Vetro 2012
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SONNO
cura della visione e regia Vincenzo Schino
con Emiliano Austeri, Marta Bichisao, Riccardo Capozza, Gaetano Liberti, Fabio Venturelli
pittura Pierluca Cetera
dramaturg Letizia Buoso
cura del movimento Marta Bichisao
scenografia Emiliano Austeri, Vincenzo Schino
suono Gennaro Mele
fonica Giacomo Agnifili
special art fx Leonardo Cruciano workshop
organizzazione Marco Betti
produzione Opera, La Lut / Voci di Fonte, Festival delle Colline Torinesi, Linea dʼOmbra / Festival Culture Giovani 2010, Kilowatt Festival / Regione Toscana Progetto Filigrane e Il Funaro
con il sostegno di Teatro Valdoca, Ass. Demetra, Indisciplinarte, L.Cruciano Workshop, lʼArboreto, PiM, Stefano Romagnoli, Santarcangelo dei Teatri