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Nella staffetta l’ultimo in lista è lì che attende il proprio turno sapendo di avere gli occhi addosso, i muscoli sono in tensione, pronti quelli degli arti superiori a non mancare la presa, febbrili quelli che decretano lo scatto degli inferiori.
Il racconto di questa sesta edizione del festival diretto da Roberta Nicolai è stato per certi versi una staffetta, un alternarsi di voci che con i loro punti di vista hanno rintracciato un tessuto narrativo e critico parziale per scelta e opportunità. Abbiamo vestito a turno abiti non sempre nostri, imponendoci la ricerca del teatro fuori da esso, scorrazzando su due o quattro ruote, camminando e perdendo gli ultimi autobus, lottando ogni sera con quel ruolo che ci vorrebbe distaccati e militanti allo stesso tempo, appartenenti a una comunità – fortunatamente sempre più viva – di cui però siamo perennemente ospiti. La staffetta ci avrebbe voluto scattanti soprattutto in quest’ultima fase, ma fortunatamente il pensiero può prendersi quelle pause che mancano allo sport, lasciare un’esperienza a decantare per abbracciarne un’altra. Così per qualche giorno il testimone ce lo siamo portato a Modena, in quel Festival Vie, momentaneamente interrotto per i tragici avvenimenti del terremoto, di cui parleremo in seguito.
Sul testimone consegnatomi dal collega Antonaci (leggi articolo) c’erano scritte parole in movimento che raccontavano di una domenica di danza e di pioggia. La settimana riapre proprio con quella pioggia, ancora pronta a mettere in difficoltà la macchina organizzativa. C’è fermento, alle 20,30 di lunedì 21, di fronte al Palladium: da Milano arrivano Manuela Lo Sicco e Sabino Civilleri, portano per la prima volta a Roma la produzione firmata Crt Educazione Fisica (recensione). Della lunga esperienza con Emma Dante i due artisti trattengono la cura di un certo linguaggio corale, la puntualità dei ritmi senza dimenticare quell’imprescindibile “gusto” per una teatralità posticcia. Con Civilleri in scena ci sono 13 giovani attori, allievi di un buffo e autoritario professore di educazione fisica. I meccanismi psicologici e sociali che muovono comportamenti, sentimenti, desideri e dinamiche nella classe sono il fuoco di una drammaturgia che diverte, anche nella sua realizzazione, per metà dell’opera, rischiando però nel finale un’accelerazione che non può far altro che scontrarsi con il muro della retorica.
È la serata dei binomi artistici, dopo una birra accompagnata al solito quantitativo sproporzionato di chiacchiere – che altro non possono fare se non arrovellarsi intorno al futuro di questa città (per esempio senza l’India chiuso per ristrutturazione e i teatri di cintura in attesa) – si torna allo spazio Romaeuropa per Musella/Mazzarelli. Quando è di qualità, il nuovo paga: sono le 23 eppure la platea ha perso pochi spettatori, è quasi piena e fuori diluvia. Tralasciamo Crack Machine, spettacolo per il quale abbiamo pensato a un approfondimento specifico e senza soffermarci sul ritorno a casa di chi scrive, ovvero il tentativo di attraversare la città a nuoto fallito grazie al soccorso di G., spettatore sincero e artista appassionato, torniamo due giorni dopo per un’altra serata da palcoscenico. Nei celebri lotti della Garbatella non ci saranno spettacoli e performance fino al giorno successivo. Il tempo di scorrere velocemente il programma e mi accorgo di conoscere solo l’ultima compagnia, Teatro delle Moire, del loro It’s always tea time avevamo già parlato, sarà dunque una serata breve ma curiosa. Entrambi i lavori, Wait di Silvia Gribaudi e Du liebst mich zu viel di Helen Cerina, fondano il proprio orizzonte estetico nella danza per poi fuggire sporcandosi le mani nella performance e dunque nel teatro. Il primo attiva nei suoi venti minuti di spettacolo un piacevole e funzionale meccanismo di parodia della danza contemporanea e di autoanalisi del proprio lavoro. Si ride per la compresenza ironica della coreografa e delle due giovani e atletiche performer nella stessa scena, per la resa ridicola di una certa simbologia della danza e di un certo gusto che critica, studiosi e operatori hanno nel voler etichettare le esperienze artistiche, anche quando volutamente multidisciplinari. Con Helen Cerina si cambia atmosfera, ma l’incompiutezza sembra essere denunciata già dal programma di sala: «Un’indagine sulla disconnessione, sul segno che rimane traducendosi in altro. Un accusa di troppo amore». La danza costituita da blocchi di gesti ripetuti si alterna a l’utilizzo forse un po’ superficiale di oggetti come il microfono, si percepisce una ricerca sul gesto e sul suono in chiave emozionale. Questa giovanissima e minuta ragazza, nonostante l’ingenuità di un lavoro a tratti ancora acerbo, colpisce per una modalità quasi trascendente di abitare la scena, con sincerità e coscienza non fa altro che renderci partecipi di un percorso senza avere la pretesa di incantarci. Uscendo mi domando se inserire la danza in due tappe chiuse sia stata un buona idea, forse alla platea avrebbero giovato percorsi paralleli e contaminati.
L’ultimo giorno ribalta le modalità di quello precedente: a tutta drammaturgia. Ci aspettano due spettacoli che per motivi simili faranno presa sugli spettatori. Ladyoscar di Ferdinando Vaselli (Ventichiaviteatro) è il risultato di un lungo lavoro sul campo fatto di incontri e interviste; la volontà però non è quella di un teatro che celebri la propulsione quasi sociologica che ne ha determinato il commino con un approccio totalmente mimetico. Anzi i due personaggi interpretati da Riccardo Floris e Alessia Berardi vivono nel mezzo di complessi rimandi, è la generazione cinica e degenerata di certi tipi alla Mtv (tra serie tv e cartoons) incrociata con la malinconia e tragicità dei periferici protagonisti pasoliniani. Sono due tossici di una lontana borgata romana, vivono in attesa della dose e i loro peggiori incubi si popolano dei migliori marchi di abbigliamento, litigano, prendono di mira qualsiasi minoranza e non hanno il minimo idealismo. Il pubblico è divertito ma tutt’ora trovo difficoltà nel rispondere alla domanda di un collega: la platea ride perché si ritrova anche inconsciamente nei due personaggi o perché si sente salva e portatrice di un morale superiore? Questa domanda me la porterò con me fino al termine dello spettacolo successivo: La merda di Cristian Ceresoli, il 1° giugno anche al Valle Occupato (recensione). Specificando che l’interpretazione di Silvia Gallerano è sublime strumento dotato di passione e tecnica in quantità industriali (capace di omaggiare note e slanci alla Franca Valeri) e che la messinscena ha il coraggio e la sincerità di quel corpo nudo che si fa parola monologante e allo stesso tempo installazione simbolo di un’umanità perduta, quel distacco che si creava tra la platea e i personaggi di Vaselli, determinante anche nella proliferazione di un riso istintivo, lo ritrovo nel racconto di Ceresoli. Impietosamente e con abilità l’autore mette in scena la vita di una donna che brama il mondo dello spettacolo, unico scopo: arrivare in televisione. E se non fosse per quelle sue cosce (parafrasando il testo) ce l’avrebbe già fatta. Ma chi siamo noi per porci di fronte a una vita che giudichiamo sbagliata? Ridiamo perché ci sentiamo migliori? Il tema è logoro e ha passato già il guado, i comportamenti sono stigmatizzati anche dal mondo televisivo che negli ultimi 20 anni non fa altro che rifocillarsi di sé stesso fustigando autonomamente quei comportamenti limite che lo riguardano da vicino. Si potrebbe però approfondire, di questa donna d’altronde Ceresoli non ci racconta altro, se non la sua folle corsa verso un sogno divenuto in poco tempo una mania. Il dito è insomma puntato ma inefficace, non può pensare di mettere in crisi – obiettivo imprescindibile – una platea che di questa alterità morale fa il proprio cavallo di battaglia.
Se il teatro in questo momento storico è il mezzo che meglio riesce a indagare la contemporaneità diventando cassa di risonanza per una feconda attività speculativa, bisogna riconoscere a Teatri di Vetro il merito di aver composto un percorso, certamente costituito di eccellenze e fragilità, capace di mettere in discussione la realtà che ci circonda. La sfida è di aprirsi ancora di più alla città, al quartiere che questo percorso lo ospita da anni. Ma il seme è già piantato, me ne accorgo dall’ultimo evento pensato per uno dei lotti Box 21. È curato da Camera 21, ensemble di fotografi (Simona Filippini, Franco Mapelli ed Eva Tomei) che nell’arco di tre giorni ha allestito un set fotografico nel mercato rionale, il risultato è stato proiettato su uno dei palazzi del quartiere creando un prezioso momento di vitalità sociale. Il quartiere si guarda come partecipe di un lavoro collettivo che esaltava però le differenze. Scorrono sullo schermo bambini, anziani, giovani coppie, commercianti e dal muretto su cui siede la platea di spettatori/protagonisti si ride, ci si ritrova nella vita quotidiana di fronte a tutti, arrossendo per una posa o uno sguardo. La comunità di cui parlavo nell’incpit di questa lunga cronaca ha il dovere di accogliere anche loro, di ricominciare da quel mercato attraversato da mille volti e colori.
Andrea Pocosgnich
Visto a Teatri di Vetro 6 [programma]
Roma
maggio 2012
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