Non amo i diari. Non amo le pagine dei diari bianchi di carta quando si smaterializzano in codici informatici. C’è qualcosa di fin troppo personale nella parola “diario”, incapace di giustificare l’eventuale interesse di un lettore.
E poi i diari sono stati trasformati in blog. E tutti ce ne siamo fatti una ragione. Blog: perdo irrimediabilmente la differenziazione tra privato e pubblico, tra personale e impersonale, tra dentro e fuori. Proseguo nel racconto fotografico iniziato da Simone Nebbia e Sergio Lo Gatto nel tentativo di restituire uno sguardo critico sull’edizione 2012 di Teatri di Vetro rinunciando a una più formale modalità di critica. Mi lascio affascinare dall’immaginario di Tumblr e social network vari, e dalle fotografie senza macchina fotografica lanciate come sassi digitali delle reti di Instagram, dai colori di Hipstamatic, dalle animazioni di Cinemagram e da quella patina vintage cucita nei tessuti dei vestiti di American Apparel. Ci vuole pochissimo per ritrovarci tutti i colori sgargianti di Spic & Span coreografia dei giovani Francesca Foscarini, Giorgia Nardin e Marco D’Agostin, che apre questa domenica interamente dedicata alla danza. Spic & Span è il nome del vendutissimo detersivo inventato nel 1933 dalle casalinghe Elisabeth “Bet” McDonald e Naomi Stenglein e lanciato sul mercato negli anni Quaranta, è l’immagine di un universo sgargiante in cui la pulizia, intesa come biancore, lucentezza e perfezione, si lega a un ideale benessere economico. In uno spazio completamente bianco se ne stanno i tre coreografi/danzatori, immobili come manichini nell’ultima vetrina della Benetton, o – dato il taglio vintage che caratterizza il loro abbigliamento – in uno dei cataloghi dell’American Apparel appena citata.
Arancione e verde, celeste e rosa, viola e giallo sono i colori delle magliette e dei Jeans che i tre abbinano a perfezione con un orologio di gomma e delle scarpe in stile Superga dai colori fluo. La scena è patina, superficie Pop (di un Pop scivolato via dalle mani di Andy Warhol in forma di Brillo Box e recuperato con nuovissima autoironia e leggerezza nella bottiglietta dello Spic & Span), la copertina di un Cosmopolitan sulla quale i corpi dei danzatori scivolano in pose impersonali e senza anima. I corpi di Foscarini, Nardin e D’Agostin sono oggetti tirati a lucido: con il volto coperto da scurissimi Ray Ban disarticolano il loro movimento nello spazio con minuziosissima precisione. Se ogni imperfezione e ogni deriva emozionale è macchia sulla superficie dai colori sgargianti, la danza è il sistema attraverso cui macchiare la scena, un sistema imperfetto che costringe il “plasticoso” involucro a rendersi opaco e a far intravedere un dentro vuoto, pronto a essere riempito ingurgitando litri di detersivo. Non si tratta di un attacco alla società dei consumi, né una sua rappresentazione attraverso il marchio del prodotto commerciale, quanto piuttosto di una dimensione grottesca che vola, con la leggerezza di un palloncino, verso la pura autoironia, in un mondo in cui l’odore del “personale”, lasciato cadere in piccolissime dosi sulla scena, è lo stesso odore di pulito dell’impersonale Spic e Span.
Quando si esce dalla sala del Palladium, in cui lo spettacolo è andato in scena, l’unico odore che accoglie lo spettatore è quello della pioggia.
Il dentro e il fuori.
Il pubblico che segue la danza non è corposo come quello che nei giorni precedenti ha seguito il teatro. Se in un blog bisogna essere il più rapidi e veloci possibili allora questa non è la giusta sede per chiedersi se sia l’acqua ad aver allontanato gli spettatori o, piuttosto, una particolarissima e spesso non fondata concezione della danza.
Proprio sull’idea di danza contemporanea, però, riflette la compagnia Qualibò in scena, sempre al Palladium, con N-esimo progetto fallimentare. Una danzatrice (Maristella Tanzi) e un tecnico (Carlo Quartararo) presentano agli spettatori una serie di piccole pièce «adatte a ogni occasione e prenotabili fin da subito», dando di volta in volta spiegazioni sul tempo di realizzazione (ed eventuali sacrifici di tempo libero e vita personale implicati nella lavorazione del pezzo) e sugli oggetti necessari alla messa in scena. Si parte da un pezzo di «Neoespressionismo lirico alla Tedesca con una particolare forma di narrazione non necessariamente lineare», per passare al «contemporaneo concettuale» e infine a una divertentissima «danza site-specific per spettatore solo». Vincitrice del premio GD’A Puglia 2011 la compagnia Qualibò dichiara sin dall’incipit dello spettacolo la natura autoironica dell’operazione, caratterizzata da una continua oscillazione tra i luoghi comuni che caratterizzano l’universo della danza contemporanea, l’intellettualismo non giustificato e la volontà di sottolineare il processo lavorativo che è alla base della costruzione di qualsiasi spettacolo in una cultura che tende sempre più a non considerare mestieranti i lavoratori in ambito culturale. La scena è allora una soglia tra interno ed esterno (come ci guardano/come ci guardiamo) dentro e fuori (lo spazio scenico/la sala prove in cui si costruisce il rapporto tra la danzatrice e il tuo tecnico) tra umorismo, semplicità e una sensazione di meravigliosa intimità.
Sotto la pioggia si lascia il Palladium di Roma e ci si sposta negli spazi dell’Angelo Mai dove prosegue la domenica di Teatri di Vetro. Uno spostamento che comporta un parallelo cambiamento di coordinate nella navigazione all’interno dell’immaginario contemporaneo. Con Family Tree di Chiara Bersani si scende infatti in un universo cupissimo e personalissimo, un’atmosfera inquietante caratterizzata al contempo dalla costruzione di meravigliose immagini sceniche e da un fare infantile precipitato in incubo. Figure misteriose appaiono sul palco, accendono fumogeni che invadono la sala dell’Angelo Mai, provocando (fino all’eccesso) disturbo alla respirazione degli spettatori. A fendere la nebbia che, inglobando altoparlanti e oggetti scenici, invade il palco è una voce di sottofondo che tesse linee di pacata retorica (forse evitabile): un cortocircuito tra la durezza dell’immagine e la dolcezza delle parole pronunciate. Un uomo con la testa mirror-ball scende lentamente dall’alto e apre la scena ad una microscopica danza (quella tra Bersani e Buscarini) che nella dimensione sognante esplode di meravigliosa dolcezza.
Infine, poco si vede della coreografia di Sara Simeoni, spostata a causa del maltempo dai Lotti della Garbatella, all’interno dell’Angelo Mai. Cancellata dagli spettatori che hanno occupato le prime file, la scena emana soltanto l’odore intenso di terra e concime lasciando intravedere di tanto in tanto le vesti bianche della danzatrice e i suoi movimenti avulsi dal contesto coreografico. Capelli lunghi e ricci, pelle sporca di terra, piedi che schiacciano pesantemente piccole uova sul pavimento: queste immagini chiudono questa giornata dedicata alla danza, come piccoli flash, polaroid rubate ad un’iPhone. Riconnesse e rimodulate in un Tumblr o in un’altra dimensione mediale, forse, racconterebbero un’altra storia e non quella personale del diario che non amo scrivere.
Matteo Antonaci
Visto a Teatri di Vetro 6 [programma]
Roma
maggio 2012
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