HomeArticoliUtopia. L'arca russa attraverso il Naufragio

Utopia. L’arca russa attraverso il Naufragio

Foto di Ufficio Stampa

Al Teatro Argentina va in scena Naufragio, secondo capitolo della trilogia/epopea The Coast of Utopia, scritta nel 2002 dall’inglese Tom Stoppard e qui proposta in un’agile traduzione di Marco Perisse e Marco Tullio Giordana, che cura anche la regia. Una regia che è quasi una riverenza nei confronti della lingua scenica, un continuo inchino che lascia il passo al testo. Un testo che le sponde di quell’Utopia le percorre tutte, raggiungendo una perizia e una finezza davvero sbalorditive.

La vicenda riapre qualche anno più tardi di dove il primo capitolo, Viaggio, l’aveva lasciata. Nell’amena tranquillità di un parco di primavera si riaccende la discussione del gruppo di pensatori: chi è emigrato in Francia, chi in Russia, Belinsky, Bakunin e Herzen emergono qui come tre facce dello stesso prisma. In loro esplode, fiammeggia e si estingue la spinta incontrastabile a una coscienza. Appesantito il primo dalla gravità di una vita personale di infrangibile solitudine, ossessionato il secondo dalla formalizzazione di un modello anarchico – condizione che in sé contiene un paradosso -, scosso il terzo dall’urgenza di nominare un muoversi comune, dal constatare un battito vitale e da uno scetticismo nichilista che gli dividerà il cuore anche negli affetti.

Lasciato alla prima parte lo spinoso compito di introdurre ambientazione e personaggi, questa seconda può viaggiare più leggera, le vele gonfie di una potente maestria letteraria e una fame di domande e speculazione che sembra non avere tregua. I dialoghi serrati esplorano davvero ogni più recondito angolo di sapienza storica, dimostrando una chiarezza di pensiero davvero sorprendente. Lo strumento più affilato di Stoppard è come sempre l’ironia, quel gusto per il tratteggio sottile del personaggio che qui, applicato a nomi e soprattutto a idee così segretamente parte del nostro stesso immaginario occidentale, riesce a stemperare anche gli affondi dialettici (e quasi didattici) potenzialmente più pesanti. Il risultato ottenuto, con precisione d’orologio, è un esperimento di traduzione e interpretazione del pensiero che percorre anni di storia e inanella con costanza il racconto epico di un’intera evoluzione culturale.

Si potrebbe prendere nota di ogni singola battuta, ma non viene lasciato tempo sufficiente. E forse il nodo sta proprio lì. La storia va avanti e non aspetta, la razionalizzazione di un così cruciale susseguirsi di eventi giunge sempre con qualche secondo di ritardo. Aiutato da un ritmo leggero e da una educata regia, messa al servizio della struttura, il testo di Stoppard mette così lo spettarore nella stessa condizione dei protagonisti, in continua asincronia con il verificarsi di una sorta di presagio. Tutti i ragionamenti sull’arretratezza (sociale e culturale) del sistema zarista, sulla già galoppante corruzione dell’Europa, sul fatto che la Russia «illuminerà l’Occidente con la sua letteratura» – quando e se finalmente libera da censura – e tuttavia finirà per «appartenere alla geografia ma non alla storia»; tutte le deduzioni, così cristalline nella loro lungimiranza, affiorano in stanze chiuse, in salotti privilegiati in cui la polvere del mondo non entrerà mai. E lì muoiono, come in un museo della coscienza in cui non arrivano suoni dell’esterno, protetto e per questo già morto ancor prima di nascere.

Foto di Ufficio Stampa

Il silenzio che contorna tutti gli sproloqui dei protagonisti fa il paio con il tono emotivo ma posticcio degli scarni fondali e con i costumi così ben curati e intonati al colore delle luci, nella creazione di questo mondo altro in cui le idee si annientano a vicenda con la loro stessa forza, fuoco contro fuoco. Mentre fuori infuria la Seconda repubblica parigina e i moti insurrezionalisti polacchi e Bakunin finisce in catene, dentro c’è sempre tempo per sciogliersi in un momento di riflessione, in fondo così squallidamente inutile. Punte alte di allegoria arrivano con il personaggio di Kolja, il figlio di Herzen, una sorta di incarnazione della stessa Russia (sorda solo finché il tuono non fa brontolare le costole) e che funge da termometro emotivo degli eventi, o quando il morbo dell’idealizzazione colpisce anche la sfera del cuore, con Natalia, moglie di Herzen, che attacca lunghe tirate su un amore che non ha confini, finendo poi di quell’amore vittima e colpevole. Mentre la scena finale si avvita in un onirico e vorticoso flashback che ci riporta a quella iniziale, capiamo allora che gli unici momenti davvero dolorosi sono un tradimento, una morte e un naufragio, appunto, che tende la mano al Salvataggio che vedremo la prossima settimana.

Di nuovo un coro di attori luminoso e generoso, al servizio di uno spettacolo che come pochi altri ultimamente dimostra di avere, genuino, il fuoco del “dire”. All’intervallo nel foyer e al cospetto della pioggia che ci attende a fine spettacolo scambio con qualche collega e amico sguardi e parole di compiaciuta approvazione, mentre ripenso a chi di questo lavoro si ostina a parlar male. È un piccolo mistero. E in qualche modo è bello che resti tale. Come questa società teatrale davvero mai riesca a dirsi contenta. Chi lamenta produzioni dal respiro troppo corto, chi sbuffa a una troppo lunga inspirazione. E il velluto degli stabili trattiene tra le sue morbide maglie tutte queste contraddizioni. Contraddizioni vitali, linfa per una discussione della cui morte non vorremmo mai essere spettatori.

Sergio Lo Gatto

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dal 10 al 29 aprile 2012
Teatro Argentina [cartellone] Roma

orari 
martedì, mercoledì e venerdì ore 21.00
giovedì e domenica ore 17.00
sabato ore 19.00
lunedì riposo

Date dei tre spettacoli

Viaggio dal 10/4 al 15/4
durata 2 ore con intervallo

Naufragio dal 17/4 al 22/4
durata 2 ore con intervallo

Salvataggio dal 24/4 al 29/4
durata 2,30′ con intervallo

THE COAST OF UTOPIA
Viaggio-Naufragio-Salvataggio
di Tom Stoppard
regia Marco Tullio Giordana
con (in ordine alfabetico)
Andreapietro Anselmi, Ludovica Apollonj Ghetti, Francesco Biscione, Giuseppe Bisogno, Roberta Caronia, Paola D’Arienzo, Luigi Diberti, Denis Fasolo, Selene Gandini, Corrado Invernizzi, Erika La Ragione, Luca Lazzareschi, Sara Lazzaro, Tatiana Lepore, Alessandro Machia, Bob Marchese, Giorgio Marchesi, Valentina Marziali, Marit Nissen, Davide Paganini, Fabrizio Parenti, Irene Petris, Odette Piscitelli, Marcello Prayer, Edoardo Ribatto, Gabriella Riva, Nicolò Todeschini, Sandra Toffolatti, Giovanni Visentin
e con la piccola Angelica Barigelli

e con la Fisarmonicista Marit Nissen (VIAGGIO)

scene e luci Gianni Carluccio
costumi Francesca Sartori, Elisabetta Antico
musiche Andrea Farri
traduzione di Marco Perisse e Marco Tullio Giordana
regista collaboratore Daniele Salvo
organizzazione generale PAV
ufficio stampa ZACHAR Patrizia Cafiero & Partners
fotografo Fabio Lovino

Una produzione Fondazione del Teatro Stabile di Torino, Teatro di Roma,
Zachar Produzioni di Michela Cescon
si ringrazia la Fondazione RomaEuropa per il sostegno e la collaborazione

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Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto
Sergio Lo Gatto è giornalista, critico teatrale e ricercatore. È stato consulente alla direzione artistica per Emilia Romagna Teatro ERT Teatro Nazionale dal 2019 al 2022. Attualmente è ricercatore presso l'Università degli Studi Link di Roma. Insegna anche all'Alma Mater Studiorum Università di Bologna, alla Sapienza Università di Roma e al Master di Critica giornalistica dell'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica "Silvio d'Amico" di Roma. Collabora alle attività culturali del Teatro di Roma Teatro Nazionale. Si occupa di arti performative su Teatro e Critica e collabora con La Falena. Ha fatto parte della redazione del mensile Quaderni del Teatro di Roma, ha scritto per Il Fatto Quotidiano e Pubblico Giornale, ha collaborato con Hystrio (IT), Critical Stages (Internazionale), Tanz (DE), collabora con il settimanale Left, con Plays International & Europe (UK) e Exeunt Magazine (UK). Ha collaborato nelle attività culturali e di formazione del Teatro di Roma, partecipato a diversi progetti europei di networking e mobilità sulla critica delle arti performative, è co-fondatore del progetto transnazionale di scrittura collettiva WritingShop. Ha partecipato al progetto triennale Conflict Zones promosso dall'Union des Théâtres de l'Europe, dove cura la rivista online Conflict Zones Reviews. Insieme a Debora Pietrobono, è curatore della collana LINEA per Luca Sossella Editore e ERT. Tra le pubblicazioni, ha firmato Abitare la battaglia. Critica teatrale e comunità virtuali (Bulzoni Editore, 2022); con Matteo Antonaci ha curato il volume Iperscene 3 (Editoria&Spettacolo, 2018), con Graziano Graziani La scena contemporanea a Roma (Provincia di Roma, 2013). [photo credit: Jennifer Ressel]

9 COMMENTS

  1. Come si fa ad elogiare uno spettacolo in cui la gente ronfa in sala dalla noia, tranne i pochi critici e addetti ai lavori compiacenti, mentre in scena c’è uno sperpero di soldi per scenografie e costumi spesso inutili, usate solo per le pruderie visionarie e il delirio di onnipotenza di un regista di cinema e non per una effettiva necessità scenica? Il testo è interessante, ma il teatro è un’altra cosa…con tutto il rispetto per Marco Tullio Giordana e tutti quelli che hanno lavorato a questo spettacolo.

  2. Caro Luca,
    perdonami ma in uno spettacolo come questo non vedo alcuno sperpero. È di certo uno spettacolo da Stabile, in cui la coproduzione permette il grande respiro di un’opera che se straripa dalle durate e dalla struttura canoniche è solo perché il progetto (innanzitutto poetico) lo prevede. Non vedo tutto questo spreco di risorse. Le scenografie sono quanto di più economico si possa immaginare, soprattutto rispetto agli standard dei Teatri Stabili.
    Ti stupirà, ma per colorare un fondale di rosso, per proiettarvi sopra delle istantanee, per far calare lampadari e slittare velatini servono *molti* meno soldi di quanto non se ne spendano per mausolei di pietra in proscenio, vetrate di sfondo o per quindici metri di candido divano in pelle. È solo un esempio, che non ho a cuore di esplicitare.
    Il Teatro di Roma e altre strutture omologhe sperperano una quantità di soldi per scene inutili intorno a pochi e sopravvalutati attori, che spesso non avrebbero poi così bisogno di lavorare. E tutto con soldi pubblici, con i miei e i tuoi risparmi.
    Oltre alla produzione di Roma e Torino, qui la produzione esecutiva è in mano a un privato: Zachar Produzioni è il nome che qui porta il portafogli di Michela Cescon, che comunque ha investito e creduto nel progetto fin dall’inizio. Quello che si spende nei costumi mi sembra più che giustificato sia da un punto di vista stilistico che, molto più importante, funzionale. Non ci sono in scena orpelli messi lì a caso ma solo usati ad hoc su un palco sgombro e a disposizione di un folto gruppo di giovani e zelanti attori (che rappresentano poi il vero investimento). Io che, come altri su queste pagine, sono spesso molto critico riguardo a come vengono investiti i soldi (soprattutto pubblici) nel teatro di oggi e come certe operazioni vengano spacciate per teatro d’arte, mi trovo qui a spezzare una lancia a favore di questo ibrido.
    Qui siamo alla presenza di uno dei testi più densi e meglio scritti della drammaturgia contemporanea, messo invece in scena con grande umiltà, quel delirio di onnipotenza del regista davvero non riesco a vederlo.
    Provare noia è diritto di tutti. Soprattutto al cospetto di operazioni come queste che si prendono il rischio (ben assolto) di andare a fondo su temi che, oltre alla storia, riguardano l’evoluzione del pensiero. Un principio irrinunciabile che sempre di più certa cultura blasonata dimentica. Ma provare noia è una cosa, per constatare la frivolezza di un’operazione occorrono ben altri argomenti.
    Io – che con te plausibilmente condivido una sfera culturale – esco da uno spettacolo come questo sapendo molto di più su quello che accadde lì in quel tempo e soprattutto quel che accade qui nel nostro. Tu?

    Grazie di aver letto, sinceramente.

    SLG

  3. Condivido in pieno la risposta di Lo Gatto: Luca evidentemente sa poco di scene, costumi e costi associati, e non ha mai visto, penso, esempi clamorosi di allestimenti che sperperano denaro pubblico (ricorda qualcuno il “Pasticciaccio” di Ronconi, bello ma costosissimo, montato solo 20 giorni a Roma e mai più ripreso?). Aggiungo che lo spettacolo è fuori abbonamento, ed è un altro bel gesto che pochi hanno apprezzato: sarebbe stato comodo “proteggere” la Trilogia con lo schermo degli abbonati che, spesso, digeriscono qualsiasi cosa e che non distinguono Pirandello da Ionesco. In questo caso, invece, la Trilogia deve essere espressamente scelta dal pubblico, e la scommessa mi sembra fin qui vinta, a giudicare dalla sala strapiena che ho avuto modo di vedere sabato scorso. Unico neo: i biglietti a settembre furono venduti con un cast di richiamo (Zingaretti, JasmineTrinca, Boni, Valentina Cervi ed altri) poi rimossi a gennaio

    La noia, invece, è un diritto di tutti, ma in questo caso bisogna proprio andarla a cercare con il lanternino, perché l’operazione è quanto di più valido e culturalmente elevato si possa chiedere ad un Teatro Stabile. Il testo è splendido, dotto, abile nel cambiare e mescolare piani e toni, e sorretto da un cast di ottimo livello (Invernizzi su tutti).

    Giudico invece ingeneroso ed un po’ esagerato il richiamo a Gabriele Lavia (lo vogliamo dire che il “candido divano” e il “monumento funebre” al proscenio sono quelli del suo ultimo “Tutto per bene” che, spero, coprirà parte dei suoi costi con la ripresa del prossimo anno e con una tournée fin qui mancata) che, con lo Stabile da lui diretto, non ha mancato di sostenere e produrre lo spettacolo. Ed è lo stesso Lavia che, pur non avendone bisogno, decide di recitare Pirandello al Quarticciolo ed a Torbellamonaca (non proprio due “campi” facilissimi, ne converrete), tra l’altro ad ingresso gratuito: non è forse questo un esempio di “teatro sociale”?

  4. Caro Paolo,
    grazie delle ulteriori specifiche, tutte molto interessanti.
    Riguardo al buon Lavia mi tocca dire che il passaggio da India/Argentina a Tor Bella Monaca/Quarticciolo è indicato a priori nel regolamento del Teatro di Roma, non è dunque una scelta sociale del direttore. Potrei anche aggiungere che proprio questo passaggio da uno all’altro polo del territorio gestito (ancora per poco) dal TdR è forse un’arma a doppio taglio: da un lato da alle periferie la possibilità di vedere quello che passa in centro, dall’altro non sempre questa opportunità basta a sfamare (nel modo migliore) le bocche del pubblico della Cintura. Sarebbe forse più utile (come ogni tanto è stato fatto) un progetto pensato ad hoc per questi altri teatri che appartengono comunque alla Capitale. Un progetto fatto di formazione dei professionisti (una compagnia stabile dei Teatri di Cintura, magari ottima idea) e un percorso di visione studiato per il pubblico del territorio, seguito da esperti nel settore dell’educazione al teatro. Tutte idee da me/noi sostenute ma non certo di nostra invenzione e già circolate al TdR, purtroppo però ultimamente scartate perché troppo dispendiose in termini di produzione, ma soprattutto di concentrazione delle energie. Tutte idee di certo più utili, complete e virtuose del semplice ricircolo delle produzioni, che in realtà è in gran parte una circuitazione illusoria.
    Grazie di aver letto e commentato
    Sergio Lo Gatto

  5. Sergio,

    credo che anche “smuovere” il fisico e le abitudini delle persone, oltre che le coscienze, serva a favorire la diffusione di un’educazione teatrale: il pubblico di Viale Cambellotti probabilmente non andrà mai a comprare un biglietto (costoso) per sedersi tra i velluti rossi (e spelacchiati) dell’Argentina, ma gradirà una proposta, sia pur riciclata, portata “sotto casa” ed a prezzi contenuti, magari accompagnata da seminari e/o incontri di introduzione che servano ad inquadrare in un contesto storico/letterario l’opera che ci si accinge a vedere e che aiutino, per il futuro, ad inserire il teatro, la partecipazione a questo rito collettivo nelle proprie priorità settimanali. Poi. ovviamente, la proposta di una compagnia residente, con un preciso percorso di formazione, costituirebbe un progetto ben più completo ed articolato, che tutti auspichiamo: temo però che, almeno in tempi brevi, questa sia veramente destinata a rimanere un’utopia…..

  6. Il confronto fa sempre piacere, ho letto volentieri i commenti, grazie per le vostre opinioni.
    Con tutto il rispetto, voi critici potete scrivere o dire tutto ciò che volete elevando ad arte qualunque spettacolo, ma alla fine vince il pubblico.
    Io, pur non essendo di primo pelo ma anzi assiduo fruitore di teatro “impegnato” e con un discreto livello culturale generale, ho fatto fatica a restare fino alla fine di questo spettacolo.
    Al contrario di quegli addetti ai lavori che- a quanto pare- si sono scambiati“sguardi e parole di compiaciuta approvazione”, molti altri comuni mortali come me non hanno affatto apprezzato questo lavoro, visti anche i commenti all’uscita del teatro.
    Esistono spettacoli necessariamente costosi, è vero, ma questo non mi è sembrato così “necessario” da giustificare una messa in scena del genere.
    Francamente ho visto solo delle “immagini” (del resto il regista è un regista di cinema) rese con trovate sceniche che non avevano nulla di particolarmente visionario né di teatralmente significativo se non 200 cambi d’abiti di scena e un investimento economico alla “Ben Hur”sbandierato anche sulla brochure.
    Cosa resta di questa versione teatrale di Stoppard, se si tolgono tutti gli orpelli e gli “effetti speciali” ? Il testo, certamente, ma se devo andare a teatro per il testo, sarà meglio che me lo legga su un libro, no? Gli attori hanno fatto la loro parte, sicuramente, ma nulla di particolarmente coinvolgente, anche se, per carità, questo spettacolo ha dato lavoro sia a questi professionisti in scena che a tutti quelli dietro le quinte, altrimenti disoccupati.
    Magari i costi, come suggerite voi, non sono così grandi rispetto ad altri casi simili, non è però chiamando in causa altri registi o altri sperperi che si può giustificare quello che c’è stato in questo spettacolo.
    Se la signora Michela Cescon, come ho letto su internet, ha investito denaro privato per prendere i diritti su questo testo, sono stati investiti anche fior fiori di soldi pubblici per mettere su questa regia andata in scena, fra l’altro, su un palcoscenico pubblico e non certo privato.
    Non è detto poi che un buon regista di cinema, sia anche un buon regista di teatro. Ma basta forse un nome e un cognome su “carta” per garantire la riuscita di uno spettacolo? Cosa c’è di scandalosamente inaccettabile nel fatto che un lavoro del genere possa non essere riuscito?
    Con tutto il rispetto per le buone intenzioni di produzione, regista e critici,
    lo “scandalo”-permettetemi- non è forse il fatto che questo lavoro sia stato finanziato anche con le nostre tasse?
    In altri tempi, da spettatore, avrei semplicemente detto che questo spettacolo non mi era piaciuto; oggi, da cittadino, spettacoli del genere mi indignano profondamente, visto che pagare un biglietto per andare a teatro sta diventando un sacrificio non da poco. In questo Paese in cui mancano risorse economiche per finanziare settori ben più basilari del viver civile (ospedali, scuola etc.) vorrei continuare a voler sostenere comunque il valore dell’investimento in cultura, anche se francamente diventa imbarazzante di fronte alla presunta “ necessità” di una messa in scena come questa…

  7. Luca,
    non è minimamente in discussione che lo spettacolo possa non piacere, è ovvio (anche se gli esiti trionfali di ieri pomeriggio, ad esempio, vanno in altra direzione) nè, credimi, posso esimermi dal far di nuovo notare che parlare di “effetti speciali” per l’Utopia è a dir poco strano (due tronchi d’albero che calano da corde, un lampadario, qualche cambio d’abito sono “effetti speciali”???): è la tua idea di “priorità sociale” nelle scelte di allocazione delle risorse pubbliche che, a mio avviso, è discutibile. Finchè le mie tasse valgono come le tue, sarà il “pensiero collettivo”, la società nel suo complesso, a deciderne l’allocazione, senza spinte populiste o derive che stabiliscano un privilegio esclusivo di alcuni impieghi su altri. E men che meno in questo caso si può parlare di sperpero, quando gli attori (che sono lavoratori…) hanno percepito 54€ al giorno (lordi), con un costo che, fatti due conti, e senza considerare future riprese, è già in buona carte coperto dallo sbigliettamento. Poi, certamente, un maggior controllo sui bilanci dei Teatri Stabili e sulle scelte artistiche è d’obbligo (ricordo che il Teatro di Roma appartiene a Comune, Provincia e Regione, che esprimono rappresentanti negli organi di vigilanza e di direzione artistica: qualche domandina va fatta anche a Zingaretti, Alemanno e Polverini…): ma sei sicuro che con l’allestimento dell’ennesimo Pirandello, di un bel Goldoni (che non guasta mai…) o, al contrario, di un bella commedia, poniamo, di Gianni Clementi (un “autore” contemporaneo che va per la maggiore) lo Stabile avrebbe meglio assolto ai suoi compiti? Hai mai visto le incursioni dello Stabile all’India nei territori delle nuove drammaturgie? Sei a conoscenza dell’attività dei Teatri di Cintura? Secondo me sono un bell’esempio di quel che uno Stabile dovrebbe fare con i soldi pubblici venendo incontro anche alle esigenze di chi chiede costi bassi, contenuti nuovi e sguardo al sociale: in quest’elenco ideale,però, rientra anche l’allestimento di un’Utopia così minimalista e intensa, low cost e poetica come quella che ho fin qui apprezzato tra i velluti dell’Argentina.

  8. Leggo dalla brochure : “3 anni di progettazione, 3 mesi di prove, 200 abiti, 68 quadri, 80 cambi di scena, 31 attori e con maestranze, tecnici e staff produttivo 68 persone impegnate”.
    Non so Paolo quali siano le tue fonti e quanto siano attendibili, ma facendo un calcolo approssimativo a forfait: 54 euro al giorno moltiplicato per 68 lavoratori, per tre mesi, fanno 330.480 euro, senza contare il cachet del regista e aggiungiamoci poi i contributi, i velatini, le luci, gli schermi con i video, maschere di animali antropomorfizzati per la ricostruzione di pochi minuti di ballo in maschera, un pianoforte che cala dall’alto per una scena di tre battute al massimo e tante altre trovate di questo genere, neanche riutilizzati durante lo spettacolo e quindi del tutto inutili per la messa in scena…non mi sembra proprio un teatro fatto con due tronchi d’albero raccolti su una spiaggia dopo la mareggiata!:-)
    Per carità tutto legittimo, se solo questo spettacolo lasciasse qualcosa. Invece quello che “arriva” è il testo (non è un caso che è anche la cosa che più risalta nella recensione di Lo Gatto): straordinario Stoppard, ma non in questa versione teatrale, mi dispiace.
    Non voglio fare il processo a Giordana o a questo spettacolo, ma –permettetemi la provocazione- se vuoi fare il realista, allora voglio anche le poltroncine dell’ottocento anziché questa pruderie intellettuale di scenografia minimalista! O forse vogliamo ora gridare al capolavoro ed elevare Giordana al Peter Brook italiano solo perché ha messo due tronchi d’albero calati dall’alto?
    Proprio perché avete tirato in causa gli Stabili, allora mi sembra che certe scelte siano tutto fuorché dettate dalla volontà di una“ società nel suo complesso”: in teatro, come in altri settori di questo Paese, comanda un’oligarchia che se la canta e se la suona, e che critica un potere che, in fondo, esercita a pari regole di quelli che esso disapprova.
    Spero davvero che questo spettacolo vada pari a bilancio dopo la tournée, grazie purtroppo anche a chi come me è caduto nella trappola dell’andarlo a vedere perché è Stoppard, perché è Giordana ( e come regista di cinema piace molto anche a me) o perché ci sono in giro troppe recensioni celebrative. La validità di uno spettacolo si valuta non solo in base allo sbigliettamento e certamente nessun “comune mortale spettatore” , dopo un’operazione mediatica del genere, si permetterebbe di dire “non mi è piaciuto”, neanche se fosse fra quelli che hanno russato durante la rappresentazione. Dico solo che, certe volte, bisognerebbe avere il coraggio di dire che esistono spettacoli che non vale poi tanto la pena di andare a vedere e che – soprattutto- non valeva la pena di produrre con soldi pubblici in un momento di così grave crisi economica per il teatro e per il Paese. Meglio andare al cinema piuttosto, a vedere magari “Romanzo di una strage”….ma ops anche questo film è di Marco Tullio Giordana e oibò anche questo è prodotto in parte con soldi pubblici, ma come mai tutto questo “assistenzialismo” statale nei suoi confronti? Siamo forse di fronte ad un genio?:-)
    Fine della catena di sant’antonio. Ognuno poi si faccia l’opinione che vuole.

  9. Fa bene a non apprezzare lo spettacolo e ronfare, se questa è la sensazione che Le è rimasta dalla visione: lasci però agli altri il piacere di non essere d’accordo con Lei, senza accusarli di far parte di quella fantomatica oligarchia che ha il solo torto di non pensarla diversamente.
    E’ ovvio, poi, che lo spettacolo non si valuta in base allo sbigliettamento, è Lei che ha messo la questione sui costi e mi sono sentito in dovere di risponderle in termini coerenti con il suo metro di valutazione. Ribadisco: questo tipo di allestimento, minimalista e low cost (anche per il regista, si tranquillizzi) è la cosa migliore che si potesse fare in un periodo di crisi come questo. Ah, dimenticavo: il pianoforte (a occhio di plastica) si ricicla e riusa in altri spettacoli, come tanti elementi di scena: c’è l’attrezzeria teatrale, nulla si distrugge, anche le scenografie di “Aggiungi un posto a tavola” sono le stesse di 35 anni fa, pensi un po’….

    Fine della catena.

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