Mi capitò qualche tempo fa di parlare con un conoscente calabrese, un giovane che non si occupa di teatro, neanche come spettatore assiduo, si chiaccherava del più e del meno utilizzando le tipiche vicendevoli domande che due coetanei si fanno ai primi incontri. Riconoscendo nel suo accento un imprecisato colore del sud Italia gli chiesi subito da quale regione venisse, orgoglioso disse: «dalla Calabria». Poi da lì il discorso iniziò a viaggiare su un altro binario, quello morto delle difficoltà lavorative di questo grigio periodo, appena gli dissi che mi occupo di teatro il ritorno alla sua terra fu immediato, quasi gli si illuminarono gli occhi dicendo «da me c’è un festival di teatro, ormai lo fanno da anni, penso sia abbastanza importante anche a livello nazionale. Si chiama Primavera dei Teatri», «ma allora sei di Castrovillari Antonio» mi uscì con un sorriso come se l’avessi conosciuto da sempre.
Forse contano maggiormente momenti come questi, capaci di riconsegnarci con fiducia al prossimo, che i numeri e le statistiche di un progetto come quello messo in piedi dalla Compagnia Scena Verticale ormai 12 edizioni fa scandendo le stagioni nella preparazione di uno dei momenti centrali della vita teatrale, culturale e sociale della Calabria e del nostro belpaese.
Che la maggior parte dei festival siano schiavi delle amministrazioni locali questo purtroppo è un dato di fatto, da nord a sud, anche quelle più virtuose sono strangolate dal patto di stabilità e fanno sempre più fatica ad aprire i cordoni della borsa, ma che addirittura non venga riconosciuto il lavoro di un gruppo di persone che ha portato Castrovillari a diventare una delle capitali estive del teatro non è solamente sbalorditivo, purtroppo è triste. Calabria, una regione che, come ci spiega Eugenio Furia su www.corrieredellacalabria.it, punta ad attrarre turismo di massa attraverso l’innovazione e, aggiungo io, sotterrando i propri tesori a colpi di lenta burocrazia. La lentezza con cui si sta procedendo alla pubblicazione del bando, sommata alle condizioni che lo costituiscono, determina il rischio di tener fuori esperienze come quelle di Primavera dei Teatri a favore di progetti monumentali e dispendiosi all’insegna dell’immancabile tradizione locale. Ma il mio amico Antonio, parlando della sua Calabria, non ha parlato né di peperoncini o soppressata, tanto meno del Magna Graecia teatro festival. Agli amministratori calabresi le conclusioni.
Il rischio di chiusura di Primavera dei Teatri, attorno al quale si cerca di far convergere l’opinione pubblica anche grazie alla lettera aperta di Renato Palazzi, è purtroppo solo uno dei tanti esempi di un soffocamento ormai in atto da tempo. Proprio qui a Roma sembra essere iniziata una stretta che dovrebbe mettere in allarme la gran parte degli spazi che hanno contribuito a creare un tessuto culturale tra mille difficoltà. C’è chi è rimasto chiuso per qualche giorno perché da un momento all’altro qualcuno si è messo in testa di fare cassa con un po’ di multe applicando con zelo paradossali normative (vedi il Teatro dell’Orologio), oppure chi addirittura è stato messo nelle condizioni di non riaprire al pubblico come nel caso del Kollatino Underground, spazio occupato che dal 2002 è riuscito a creare un piccolo polo di ricerca dove sono sbocciate compagnie come Santasangre. Ricordo un evento di circa cinque anni fa, si chiamava Installer, una vera e propria festa dell’underground performativo romano e non solo, ricordo come le occasioni teatrali si alternassero senza sosta in quegli antri nascosti, sotto la superficie della periferia romana brulicava una folla di curiosi in cerca di epifanie artistiche. Ne ricordo una in particolare, che rappresentò quasi un momento iniziatico, era l’incipit di (a+b)³ dei Muta Imago, pochi attimi per consegnarmi a quella passione teatrale, emozionandomi come un bambino. Nel caso del Kollatino l’amministrazione pubblica riesce a mostrare il suo volto più sinistro: dopo uno stop delle attività di 40 giorni a novembre e una multa di 500 euro per non aver rispettato gli articoli 68 e 80 del testo unico che regola le leggi sulla sicurezza per le attività di pubblico spettacolo, il 17 aprile ha di nuovo bloccato il lavoro del centro culturale per gli stessi motivi. Il paradosso sta nel fatto che l’associazione culturale Kollatino Underground, presieduta da Chiara Crupi, non ha mai, nonostante le richieste, avuto l’assegnazione degli spazi, cosa che invece permetterebbe la messa in regola rispetto al testo unico sul pubblico spettacolo. Insomma per l’ennesima volta siamo di fronte all’immagine di uno stato che con una mano ti nega la maggior parte delle cose a cui hai diritto, ma con l’altra si mostra zelante nell’esigere che le regole siano rispettate, anche a costo di creare strani guazzabugli giuridici.
Settimana colma di brutte notizie quella scorsa, nella quale la comunità teatrale ha dovuto confrontarsi non solo con le problematiche calabresi e romane, ma anche con la scelta definitiva della compagnia Fortebraccio Teatro di lasciare la gestione del Teatro San Martino di Bologna. Già nell’ottobre 2010 Roberto Latini organizzò una conferenza stampa presentando la non-stagione 2010/2011, in quell’occasione vennero fuori le criticità economiche, l’impossibiltà di mandare avanti un teatro all’interno di un complesso monumentale del Quattrocento, dove le performance più sperimentali condividevano lo spazio con affreschi secenteschi e stucchi settecenteschi, poco più di trentamila euro versati annualmente da comune, regione e provincia con costi di gestione notevolmente superiore ai finanziamenti. Eppure nelle tre stagioni precedenti Latini e il suo gruppo di lavoro avevano fatto rinascere quel teatro trasformandolo in crocevia aperto, in progetto culturale. Certo, quella del San Martino era un’utopia – ma unica soluzione per non replicare progettualità che vanno invece a pesare sugli artisti con l’affitto della sala -, ovvero la pretesa di affidarsi ai finanziamenti pubblici e allo sbigliettamento per coprire tutti i costi. Le compagnie andavano a percentuale, come in molti altri posti, con la differenza che quella percentuale era sempre a due zeri, agli artisti il 100% dell’incasso e un teatro da gestire mantenendo fede all’idea originaria: l’apertura. Ai primi di maggio gli allievi della scuola di formazione del San Martino organizzeranno tre giorni di incontri e spettacoli, chissà che, imbattendocisi per caso, qualche politico non cambi idea.
Questi tre esempi sono naturalmente solo alcune delle centinaia di incrinature in un sistema sempre più pericolante; sono numerosi gli spazi e gli eventi culturali costretti a chiudere o a limitare il proprio lavoro in tutta Italia, alcuni sono vessati da affitti e spese sempre più alti, altri da finanziamenti che diminuiscono di stagione in stagione, per non parlare dei debiti contratti da molte amministrazioni con numerosi soggetti produttivi.
Sia chiaro che ogni azione ha una diretta conseguenza, dal basso si sperimentano gli anticorpi del presente e del futuro: vengono occupati teatri e spazi in tutta Italia, nascono reti territoriali e nazionali, ci si incontra sempre più spesso alla ricerca di alternative – la riuscita giornata nazionale del Cresco del 21 aprile ne è esempio emblematico. Il rischio è quello di costruire per necessità economiche un panorama teatrale sempre più clandestino e lontano dal grande pubblico. Ma forse stiamo esagerando, questo è uno scenario da dittatura. Noi siamo in democrazia… vero?
Andrea Pocosgnich
il rialto invece è chiuso dal 2009, a luglio fanno tre anni tondi tondi. eravamo avanti coi tempi…