Parafrasando Ennio Flaiano nel suo scritto Lo spettatore addormentato, cadere preda del sonno a teatro è permesso e certe volte quasi consigliato, perché solo in quel limbo lattiginoso è possibile raccogliere e comprendere il senso sottile della rappresentazione dal vivo. E quel senso ogni volta si nasconde, si scansa, si mimetizza, al punto che troppo spesso ci troviamo a commentare la riuscita o il valore di un’opera teatrale dimenticando di essa il presupposto fondamentale, il nord su cui la bussola necessariamente punta: noi stessi. Il rapporto tra l’azione scenica (di qualunque natura sia) e l’occhio che la osserva si complica ulteriormente quando l’occhio diviene cieco, cioè nel teatro radiofonico. Situazione diversa ancora dalla forma già strutturata del radiodramma, occorre compiere un salto immaginativo più acrobatico per ritrovarsi a essere spettatori fisici della mise en espace radiofonica di un testo che sarebbe invece scritto per la scena.
Accade con Music-hall, testo di Jean Luc Lagarce (scomparso nel ’95 non ancora quarantenne e attualmente il drammaturgo francese più rappresentato dopo Molière) che vede qui la sua prima nazionale. La storia di una «ragazza» (Daria Deflorian) e due «ragazzi» (Marco Angelilli e Diego Ribon) e del loro recital da quattro soldi portato in tour nelle bettole delle più dimenticate periferie è un dramma nostalgico e desolante che sceglie una lingua completamente trasversale. Grazie anche alla brillante e chirurgica traduzione di Gioia Costa, la dimensione metateatrale che contiene i dettagli minuscoli dell’epos delle compagnie di giro di quart’ordine riesce a evitare ogni cliché, frammentata in uno stile assolutamente unico, una sorta di forma epistolare dello spirito in cui i dialoghi, quasi mai uno a uno e sempre come sfasati nel tempo, vengono passati alla sintesi del pensiero immediato e si confondono con le stesse didascalie.
Luoghi dispersi nel cemento delle banlieu o nel grano arso delle campagne della provincia, i music hall che aprono le porte a questo spettacolo polveroso e poetico sono come cattedrali nel deserto, avamposti onirici abitati da personaggi gretti, quasi pre-verbali, che la penna di Lagarce stilizza appena, come fantasmi diafani che prendono vita in un delirio di gruppo. Del fantomatico recital si sa niente se non le disposizioni di una magra scheda tecnica e le poche indicazioni sceniche. Una ragazza seduta su uno sgabello e una musica che dovrebbe esserci e non c’è, un registratore sostituito dalla sbilenca performance coreutica dei due ragazzi, sempre sul punto di piantare in asso l’orizzonte bohémien per un lavoro qualunque. Allora in questa sorta di circo delle pulci i dettagli sono fondamentali: lo sgabello diviene quasi un trono prezioso; l’occhio di bue un vezzo irrinunciabile come le spente paillettes degli abiti; la musica appena accennata dalla bocca semichiusa ha quel francese zoppicante che sa di carillon sul punto di scaricarsi.
La regia di Valentino Villa ricrea quest’atmosfera rarefatta disseminando oggetti in scena. Lo sgabello di legno, quattro leggii che si offrono come pali agli avvoltoi, un appendiabiti. Ogni cosa come dimenticata lì, in questa soffitta aperta dopo anni con la polvere che taglia il fiato e fa tossire. La forza del testo, che sta nel senso di malinconia e di assenza, arriva come piccolo dolore grazie a un’altra performance sorprendente di Daria Deflorian, che ritrova se stessa nelle parole come solo i grandi interpreti sanno fare. Sillabe battute con insistenza si alternano a frasi che si spengono nel vuoto, mezzi sorrisi e occhi lucidi si fondono in una straziante armonia, una patina di invecchiamento come il crepitare di un vinile rende ogni piccolo monologo sembianza di un ricordo che arriva da lontano, qualcosa che di continuo torna alla mente. E così il ritornello «Ma come ci siamo ridotti?» assume cento volte cento sensi diversi.
A dettare ritmo e armonia visiva di questa originale operazione è anche la presenza liquida di Angelilli e Ribon, caldi come un sussurro e dotati, nel corpo, di una straniante volatilità. L’esperienza di spettatore qui percorre un nuovo sentiero. Faccio più volte l’esperimento di chiudere gli occhi, per sentirmi risuonare dentro le parole come fossi solo ascoltatore radiofonico. Poi mi convinco di qualcosa: questo strano ibrido non vuole il bianco delle palpebre serrate, ha bisogno di tenere la vista ferma nel mezzo di quella percezione, in cui i corpi, i colori e le luci che intanto scorrono davanti osservano una distanza di rispetto con le parole, acute e fragili, adesso, nel loro non esistere più. Come nel dormiveglia.
Sergio Lo Gatto
Visto e ascoltato il 24 aprile 2012
Il Teatro di Radio 3 (Sala A di Via Asiago)
riascoltalo con i podcast di Radio 3
Music-hall
di Jean-Luc Lagarce
traduzione di Gioia Costa
con Marco Angelilli, Daria Deflorian, Diego Ribon
Mise en espace a cura di Valentino Villa
una produzione Rai Radio3 / Face à face
prima italiana