Quando Garibaldi partì da Quarto e sbarcò in Sicilia, nel 1860, era primavera. L’Eroe dei due Mondi avrebbe sperimentato sulla sua pelle che per unirne uno non basta attraversarlo con Mille seguaci combattenti, ma il suo viaggio fu come una breccia nel nascente Stato italiano, nazionale si sarebbe detto, per accorgersi paradossalmente di quanto fosse diviso, nell’azione di unificarlo. Non basta, 150 anni dopo, parlare di sud in quel modo parassitario ed evasivo di “Mezzogiorno”, “questione meridionale”, trattandolo in termini di problema e non di risorsa: ogni sud è una specificità, e dunque un valore. Proprio per questo dopo il Focus Puglia eccoci a promuovere una seconda collaborazione in Sicilia, dove la nostra collega Filippa Ilardo sarà corrispondente della fertilità che questa terra sembra avere e di cui così poco ci si occupa. TeC sbarca in Sicilia, lo fa a primavera. Fosse questa la volta buona.
Nel mettere in scena I nostri tempi, dagli scritti di Michele Perriera, autore simbolo per il teatro contemporaneo siciliano da poco scomparso, il regista palermitano Claudio Collovà sfodera una rara forza comunicativa e costruisce uno spettacolo, prodotto dal Teatro Stabile di Palermo, pervaso da un lirismo delicato e onirico, da un’enigmatica e commovente spiritualità, declinando la raffinatezza estetica e visiva in un linguaggio estremo, coraggioso. A proiettare tutto su un piano metafisico è soprattutto la scena di Enzo Venezia, fatta di linee oblique, piani inclinati, tensioni ascensionali, scale, letti di ferro, che ricavano un’atmosfera plumbea, astratta, pervasa dal sogno e da un senso di precarietà esistenziale.
Sulla platea trasformata in scena, esseri umani percorrono traiettorie infinite, alzano l’indice verso l’alto indicano forse una dimensione ulteriore, trascendente, forse un punto, o un possibile valico verso l’inconoscibile. Sono solo ombre dai contorni sfocati pronte a lasciarsi vivere dal respiro di personaggi diversi e poi a svaporare nel buio dell’oblio. Uno di questi, Sergio Basile, sembra diventare il signor M. – Michele Perriera per l’appunto – ma anche e semplicemente un uomo in senso assoluto, nel momento finale della propria vita, quando si lascia trapassare dall’oscuro abisso del nulla e fa i conti con la possibilità della sparizione e l’ ossessione dell’annientamento. La morte ha le sembianze di un angelo nero, Salvatore Cantalupo, a metà tra Arlecchino, beffardo giocoliere con la vita e la morte, e Caronte, traghettatore di anime nel regno della morti, o forse lui stesso anima di quell’uomo che si prepara a separarsi da un corpo ormai malato.
In quel teatro, “vellutata balera dell’anima”, Perriera dà il suo benvenuto, che presto si tramuta in addio, al suo pubblico in cui sente moltiplicarsi la sua coscienza, ma la sua voce sembra essere già un’assenza, così l’inizio e la fine si confondono. In un alternarsi di piani temporali e stratificazioni di sensi, si ripercorre l’ultimo atto della vita di una grande uomo di teatro, dalla forte coscienza civile e dalla lucida consapevolezza della propria solitudine.
Come in un calvario laico egli affronta l’inesorabilità del proprio destino: il suo procedere verso l’ignoto è una continua caduta; la malattia una violazione da parte dei medici di un’intimità scrutata, ispezionata, che annulla l’individuo, lo riduce a sostanza fisica, a materia, materia deperibile, caduca, orientata verso una fine che è un baratro su cui l’esistenza lentamente, delicatamente scivola.
In questo viaggio dantesco, o smarrimento in una “foresta di simboli”, si materializzano visioni e fantasmi, l’amato fratello, Luigi Mezzanotte, eccellente violoncellista, con cui comincia un serrato confronto sull’autonomia del linguaggio artistico, un chiaro manifesto artistico dello stesso Collovà che non rinuncia alla creazione di un’opera che nell’ omaggiare il maestro, adotta una cifra stilistica del tutto originale.
Mentre l’incontro con una giovane donna, Aurora Falcone, è uno scoppio di vitale sensualità, quello con la madre, Serena Barone, già morta, è una regressione ad una forma di vita primigenia, alla ricerca di quelle radici dell’esistenza che, attraverso lo stupore, si incanta davanti al senso del sacro, allo spiraglio di una realtà sovrasensibile che si cela sotto i fenomeni e le apparenze. Lo spettacolo affronta prima di tutto questo rapporto problematico tra umano e divino, quella lacerazione umana ed estetica che fu di Michele Perriera. In chiave cristologica, gli allievi pregano questo maestro di vita, “resta con noi“, quasi apostoli di un verbum letterario dal forte valore umano, nel colloquio con i suoi personaggi, questi dall’alto della croce si confessano, svelano i loro peccati, cercano una possibile redenzione. Poi, tutti gli attori trasformati in figure angeliche, solcano in volo una Palermo degradata, offesa, che in sé concentra contraddizioni talmente iperboliche da diventare panopticon del mondo stesso.
Alla fine il clown nero fa il suo dovere, in un lavacro doloroso e sferzante, lo purifica dal suo corpo, ora è solo anima questo artista, lacerato, complesso che ha fatto del teatro l’unica possibile forma di vita.
Filippa Ilardo
Visto il 6 aprile 2012 Teatro Bellini Palermo
I NOSTRI TEMPI
dagli scritti di Michele Perriera,
con Sergio Basile, Luigi Mezzanotte, Salvatore Cantalupo, Serena Barone, Aurora Falcone, Domenico Bravo
scene e costumi Enzo Venezia
luci e foto di scena Nino Annaloro
produzione Teatro Stabile di Palermo
regia Claudio Collovà