Immaginiamoci prigionieri di un videogame, costretti a saltare, combattere, vincere, cadere e morire per rinascere immediatamente dopo. Ignazio, protagonista Di questo sogno che chiamiamo vita, andato in scena al Teatro Kismet OperA per l’ideazione e regia di Lello Tedeschi, racconta il suo viaggio a più livelli chiedendo al pubblico di accompagnarlo e condividerne incubi, fatiche e speranze. Tre pareti bianche delimitano lo spazio claustrofobico in cui si muove l’attore ventiduenne Ignazio Dimastropasqua, ex ospite dell’Istituto Penale Minorile “Nicola Fornelli” di Bari che in scena mette muscoli, fiato, sudore, energia e sofferenza.
Grazie al contributo del Ministero della Giustizia – Dipartimento Giustizia Minorile, l’impegno del Kismet OperA per un teatro civile prosegue ininterrottamente dal 1997. Attraverso laboratori teatrali annuali condotti nell’Istituto, il lavoro di scena fa approdare i giovani detenuti alla scoperta dell’espressività del proprio corpo come mezzo di condivisione e relazione. Questa la gestazione dello spettacolo di Tedeschi, che ha visto la luce nello spazio denominato Sala Prove, ormai da tempo divenuto luogo di partecipazione teatrale allargata.
Tra riferimenti autobiografici di una dolorosa adolescenza e riferimenti letterari, slittando tra piano della realtà e piano dell’irrealtà, Ignazio narra la propria difficile ma tenace ascesa «al sogno di una nuova vita» attraverso il superamento di cinque livelli. Si parte dall’ultimo, quello che non ha un nome, perché è talmente profondo che le parole non ci arrivano. È il livello quasi vicino alla morte, nel quale però è possibile trovare alcune parti di se stessi intatte ed è a queste che ci si può attaccare per risalire gli altri livelli. Il quarto livello è quello degli animali, nel quale si agisce d’istinto e si sbaglia, si fa ciò che non si dovrebbe perché manca la pretesa e la consapevolezza di distinguere ciò che è giusto da ciò che non lo è. Il terzo livello è quello degli incubi, in cui ci si guarda allo specchio e non ci si riconosce, si ha paura di ciò che si vede. Salendo c’è il livello dell’amore, ed è questo il momento vero delle lacrime e degli affetti che però sono subordinati all’ultimo livello, quello superficiale delle apparenze, fatto di chiacchiere e bugie.
Saltando, gridando e brandendo una spada che non manca di trasformarsi in una croce, a ricordare il fardello che si porta addosso, il protagonista mette in scena il dramma ma allo stesso tempo ne smorza la tensione ballando musica techno, ironizzando e provocando il pubblico fino ad invitarlo a ballare con lui. Se è vero che queste incursioni ironiche spezzano la riflessione e non danno allo spettatore il tempo di immedesimarsi in quell’eroe da videogiochi che ogni giorno e per tutta la vita percorre continuamente i cinque livelli, tuttavia il testo drammaturgico non perde la sua coerenza ed efficacia. Perchè in questo sogno che chiamiamo vita non c’è tempo per pedanti riflessioni, è il tempo della festa, del ballo di speranza e della gioia di riuscire ancora a sognare.
Luana Poli
Visto al Teatro Kismet OperA
DI QUESTO SOGNO CHE CHIAMIAMO VITA
con Ignazio Dimastropasqua
ideazione e regia Lello Tedeschi
assistenza alla regia Piera Del Giudice
luci Carmine Scarola
cura Franca Angelillo, Daria Spada