La lista delle dramatis personae nei testi elisabettiani era redatta in ordine di importanza. Protagonista della tragedia omonima (pubblicata solo nel 1623 ma probabilmente datata 1599) è Giulio Cesare, colui che storicamente ha strappato la democrazia alla Repubblica Romana trasformandola in una dittatura. Seguono coloro che, alla sua morte, comporranno il secondo triumvirato (Marcantonio, Ottaviano e Lepido) e che qui rappresentano dunque il futuro di Roma non narrato nella tragedia; vengono poi Cicerone, Publio e Popilio Lena, tre senatori che stanno a significare il presente e infine i responsabili del complotto e dunque ponte tra presente e futuro. A loro otto (storicamente furono una sessantina), raccolti in un unico elenco, Shakespeare riserva un solo epiteto: cospiratori. Quello il loro ruolo.
Vincenzo Manna e Andrea Baracco prendono il testo e lo tagliano sensibilmente, riducendolo a una rete di scene adatte a sei attori. Sul palco vuoto unici elementi scenografici sono tre vecchie porte. Niente battenti, niente stipiti, sembrano avanzi di quell’edificio del potere già in parte demolito. Molti tagli, molti sagomatori, le luci di Javier Delle Monache inquadrano particolari, bagnano zone ristrette, sacrificano la profondità e insistono sul controluce che cancella i volti e lascia alle ombre il compito di definire le espressioni.
L’impressione visiva è quella di un incubo cupo, più familiare – nel nostro immaginario di spettatori – al Macbeth che al Giulio Cesare. Eppure proprio in questo ambiente sospeso, in questa lama di silenzio costretto, in questa atmosfera che sa di bocche imbavagliate e sibili all’orecchio sta forse la scelta più vincente di Baracco. Fa ben sperare il quadro iniziale in cui, su una inquietante penombra, una voce sussurra, quasi biascicando, un avvertimento rivolto a Cesare perché si guardi da tutti i cospiratori, nominati uno a uno. Così come è convincente la scelta di non mostrare mai né i senatori né Cesare stesso, ma solo il torbido meccanismo della congiura che nell’ombra gli si stringe addosso. In questo modo gli spettatori finiscono per sporcarsi le mani con la propria autonoma conoscenza dei fatti al punto che, quando c’è da fare i conti con la responsabilità e con l’eredità di quell’atto, dovremmo sentirci tutti colpevoli.
Intenzioni ottime perché semplici e di conseguenza agilmente riconducibili anche a un’attualità in cui l’inerzia e la dinamica del “capro espiatorio” rendono tutti (amleticamente, stavolta) vigliacchi e colpevoli; intenzioni che tuttavia rimangono tali per motivi riconducibili a scelte attorali. Il cast sconta innanzitutto la debolezza di una eccessiva uniformità anagrafica, che non permette ai registri di variare: tolta la prova ottima e incisiva – seppur spesso sopra le righe – di Giandomenico Cupaiuolo che interpreta Bruto, Cassio (Roberto Manzizi) non costituisce un reale contraltare del conflitto, così come il Marco Antonio di Gabriele Portoghese, abbigliato à la George Michael e senza solide basi di motivazione del personaggio.
Le presenze femminili (Aurora Peres e Livia Castiglioni) dovrebbero comporre il sangue della ferita aperta dal cesaricidio, le loro disperate innocenza e impotenza dovrebbero traghettare i congiurati verso la disfatta morale, mentre un taglio forse troppo brusco del testo e un’impostazione melodrammatica della recitazione le confinano in due singole scene di sfogo risolte in grida laceranti e pugni battuti a terra. Di questa come di altre complessità della storia, una su tutte il senso di responsabilità civile dei congiurati e la pressione continua di una fase politicao di passaggio in cui è la violenza latente a condurre i rapporti di forza, gli interpreti non riescono ad essere all’altezza.
Un ottimo espediente (sia poetico che tecnico) è quello di strutturare le scene come picchi nervosi di un delirio, che giustifica con il piglio onirico certi eccessi di simbolismo e le molte ellissi che la storia e ancor più l’adattamento si concedono; allora il popolo (personaggio fondamentale) è rappresentato da mani e avambracci che spuntano da dietro le porte sempre in movimento, dita che tamburellano sul legno, gesti plateali come di malizioso prestigiatore. Tuttavia un uso assolutamente invadente di musiche a effetto, soprattutto se sottende una recitazione troppo acerba e scolastica, riesce a rendere stanchi anche questi buoni spunti.
In ogni lavoro elisabettiano qualsiasi pur buona idea visiva e ritmica dovrebbe essere al servizio dello sviluppo drammaturgico. Tolto Cesare, tolti i senatori, tolte le scene di massa, restano solo i cospiratori, il potere che verrà (il fallimento di Cassio e Bruto e l’avvento di Marcantonio) e i cadaveri della Roma che fu (Porzia e Calpurnia). Se tra loro muore la tensione, che una recitazione entropica tramuta in vuote ed esteriori scene madri, muore il dramma. E Cesare è ancora vivo.
Sergio Lo Gatto
in scena fino al 4 marzo 2012
Teatro India [cartellone2011/2012 ]
Roma
GIULIO CESARE
di William Shakespeare
adattamento di Vincenzo Manna e Andrea Baracco
regia Andrea Baracco
con Giandomenico Cupaiuolo, Roberto Manzizi, Aurora Peres, Waldem Zanforlini, Livia Castiglioni, Gabriele Portoghese
scene Arcangela di Lorenzo
consulente ai costumi Mariano Tufano
disegno luci Javier Delle Monache
regista assistente Giulia Dietrich
produzione Benvenuti srl e Lungta Film in collaborazione con Teatro di Roma
UNA NOTA NECESSARIA.
Nonostante – e leggendo mi sembra sia chiaro – la visione critica qui espressa non sia basata su questo assunto, sento il dovere di mettere in discussione la prima frase di questo articolo, in cui scrivendo che “La lista delle dramatis personae nei testi elisabettiani era redatta in ordine di importanza”, riporto quella che è una reminescenza degli studi teatrali condotti all’università. Reminescenza tuttavia non verificata. Non sarei insomma in grado di citare in calce la fonte di studio che suggerisce questa ipotesi. In altre parole Wikipedia ne boccerebbe l’attendibilità.
Il regista di questo “Giulio Cesare”, Andrea Baracco, in una e-mail inviata in redazione contesta infatti questa nozione come un “errore grossolano” che “sottovaluta la complessità della materia shakesperiana e delle strutture drammaturgiche in generale”.
Accetto di buon grado l’appunto proprio perché non ho dimostrazione valida a provare la mia ragione né tantomeno una qualche tenacia nel difendere l’argomento che, come detto, non era fondante per questo mio pezzo di lavoro.
Mi sembra a questo punto anche utile a un approfondimento riportare solo in forma di elenco personaggi (epurate dunque da qualsiasi commento privato tra me e Baracco) le liste di dramatis personae di altri celebri drammi shakespeariani:
In “Romeo e Giulietta” il primo personaggio in elenco è “Escalo, principe di Verona” (Romeo è in settima posizione e Giulietta in tredicesima).
In “Riccardo III”: il primo personaggio in elenco è “Regina Margherita, vedova di Re Enrico IV” (Riccardo III compare come ottavo)
In “Otello”: apre “Il Doge di Venezia” (Otello quinto, Iago ottavo, Desdemona dodicesima)
In “Amleto”: innanzitutto c’è “Claudio, re di Danimarca”, solo dopo Amleto.
Al di là dell’apparenza da classifica, mi sembra più utile porre l’accento sulla tecnica di elenco, effettivamente non univoca. Questo potrebbe suggerire un ordine casuale? Conoscendo l’autore e il peso che la drammaturgia e il concetto stesso di personaggio avevano nel teatro elisabettiano, pare più probabile che si tratti di una mappatura più complessa, ad uso e consumo di lettore, regista e attori.
Grazie a tutti e ad Andrea Baracco per l’appunto.
SLG